Ancora sulla natura della sentenza di patteggiamento

AutoreAntonio Segreto
Pagine113-118

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@1. La sentenza penale in generale

Con la locuzione «sentenza penale» solitamente ci si riferisce all'atto con il quale si conclude il giudizio di responsabilità di un soggetto che ha commesso il fatto qualificato criminale dall'ordinamento (NAPPI, Sentenza penale, in Enc. dir. XLI, 1313; MARZADURI, Titolo III: Sentenza, in Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino 1991, 489; MAROTTA, Sentenza penale, in Dig. disc. pen., XIII, Torino 1997, 165).

Quanto, in particolare, alla sentenza penale di condanna, l'art. 533, comma primo, c.p.p. descrive con maggior decisione, rispetto al precedente codice, il paradigma della stessa, disponendo che, se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli, il giudice pronuncia sentenza di condanna, applicando la pena e l'eventuale misura di sicurezza.

Stabilendo che la sentenza di condanna deve essere pronunziata quando l'imputato risulti colpevole, si è inteso da un lato fissare un suo elemento essenziale, dall'altro rappresentare l'accertata coesistenza di tutti i presupposti della responsabilità penale, designati dalla legge sostanziale (MANZIONE, Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, Torino 1991, sub artt. 533, 534, 544; CONCAS, Condanna, in Enc. giur. 1).

Dichiarazione di colpevolezza ed applicazione della sanzione penale, detentiva, pecuniaria oppure sostitutiva, sono quindi gli elementi essenziali che concorrono a costituire il contenuto minimo della sentenza di condanna (SIRACUSANO, in SIRACUSANO, DALIA, GALATI, TRANCHINA, ZAPPALÀ, Manuale di diritto processuale penale, II, Milano 1996, 324).

Va rilevato che tra i principi che hanno presieduto alla legge delega prima ed al codice del 1988, poi, vi sono stati quelli di sancire l'eguaglianza tra le parti - accusatore e difensore - di garantire il contraddittorio ed il diritto di difesa; di tracciare la distinzione di fondo tra «procedimento» e «processo».

Il nuovo codice si fonda, infatti, su una concezione dialettica o argomentativa della verità, per cui questa si costituisce nel processo, in funzione dei principi che regolano la ricerca e la formazione della prova.

Al processo di tipo inquisitorio si è sostituito il processo di tipo accusatorio, retto dal principio dispositivo della prova (GREVI, Prove, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di CONSO e GREVI, Padova 1990, 152).

A questo punto si pone il problema di come inquadrare in siffatto sistema i due riti speciali basati sul «patteggiamento»: l'applicazione della pena su richiesta delle parti ed il giudizio abbreviato.

È difficile accettare l'opzione che il sistema accusatorio soffra due eccezioni così rilevanti proprio in relazione alle procedure differenziate, che ne dovrebbero rappresentare, invece, espressioni significative, nell'ambito della risposta globale, ma articolata, del sistema.

In questo senso non può condividersi l'opinione di chi (NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, cit., 11) ritiene che il sistema offra alle parti principali del processo «la scelta tra l'alterantiva inquisitoria che consente di pervenire ad un giudizio fondato direttamente sugli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero, e l'alternativa accusatoria, che esige la formazione della prova nel contraddittorio delle parti innanzi al giudice del dibattimento».

@2. La tesi della sentenza di patteggiamento come sentenza di condanna

L'orientamento che raccoglie in dottrina maggiori adesioni è quello che individua nella sentenza di patteggiamento una sentenza di condanna.

In questo senso si era espressa in un primo momento la S.C. osservando che detta sentenza ha natura di sentenza di condanna, tranne che per alcuni effetti esclusi per espressa deroga (Cass. 5 giugno 1992, Arena, mass. uff. 191421).

Fu osservato che l'atteggiamento remissivo dell'imputato non è stato ritenuto dal legislatore sufficiente a fondare la decisione del giudice, al quale, invece, viene imposto di procedere, prima di pronunciare la sentenza, alle verifiche previste dall'art. 129 c.p.p.: le quali, seppure condizionate allo stato degli atti, concernono tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi, della regiudicanda, con l'ovvio conseguenza che, anche a fronte di concorde richiesta di applicazione della pena, il giudice ha il potere-dovere di pronunziare sentenza di non doversi procedere. Né contrario rilievo può trarsi dalla circostanza che il giudizio si conclude senza che si sia sviluppato un contraddittorio sulla responsabilità e si sia proceduto alla delibazione della relativa prova, dato che anche nell'ipotesi di decreto penale di condanna tanto accade e, tuttavia, nessuno dubita che quel provvedimento si risolva in una decisione di condanna (Cass. 7 settembre 1993, Angelucci, in Cass. pen. 1993, 1009).

Anche il dato letterale della disposizione è stato segnalato come inequivocabilmente significativo.

L'espressione che si legge nell'ultimo periodo dell'art. 445, comma primo, «salva diversa disposizione di legge, la sentenza è equiparata ad una pronuncia di condanna...» va letta in relazione al periodo che precede «... la sentenza non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi...» e conferma l'opinione predominante secondo la quale, escluse le esplicite diverse previsioni di legge, la sentenza de qua esprime una condanna (Cass. 26 marzo 1991, Negri, in Cass. pen. 1992, 375).

A questo indirizzo aderiva in un primo momento anche la Corte costituzionale. Questa, dopo aver esaltato la componente giurisdizionale della procedura pattizia (Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, in Cass. pen. 1990, II, 221), ha assunto nei successivi interventi posizioni molto più sfumate, ma è innegabile che non si è spinta al di sotto di una Page 114 soglia minima di valorizzazione dei poteri giurisdizionali del giudice.

Infatti, pur riconoscendo l'assenza di un accertamento pieno della consapevolezza (Corte cost. 11 dicembre 1995, n. 499, in Foro it. 1996, I, 1152; Corte cost. 6 giugno 1991, n. 251, in Arch. nuova proc. pen. 1991, 361), ha ribadito con la sentenza 31 maggio 1996, n. 155 (in Arch. nuova proc. pen. 1996, 337, con note di TENCATI e di GERACE), che «il giudice... è chiamato a svolgere valutazioni fondate direttamente sulle risultanze degli atti, aventi natura di giudizio non di legittimità ma anche di merito».

Osserva la Corte costituzionale che quanto alla responsabilità, la sentenza che applica la pena concordata presuppone l'accertamento negativo da parte del giudice circa la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per una delle cause di non punibilità indicate nell'art. 129 c.p.p. L'anzidetto accertamento negativo non equivale di per sè simmetricamente ad una pronuncia positiva di responsabilità. Infatti la sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 c.p.p. non assume le caratteristiche proprie di una pronuncia di condanna basata sull'accertamento pieno della fondatezza dell'accusa penale (Corte cost n. 251 del 1991).

Tuttavia tale sentenza accogliendo le richieste delle parti che concordano circa l'opportunità di definire il processo attraverso un accordo sulla pena, in certo modo presuppone pur sempre una responsabilità. Ed è questo ciò che giustifica la normale equiparazione della sentenza che dispone l'applicazione della pena su richiesta delle parti ad una pronunzia di condanna, a norma dell'art. 445, comma primo, ult. parte, c.p.p.

La dottrina favorevole a questo primo indirizzo giurisprudenziale ha rilevato che, benché la proposta o il consenso manifestato dall'imputato implichi un'ammissione di responsabilità, spetta comunque sempre al giudice valutare se l'accusa sia fondata (NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano 1996, 445).

La necessità che il giudice si formi un convincimento di colpevolezza dell'imputato conserva all'applicazione della pena su richiesta delle parti la natura di giudizio, che, sebbene richieda un accertamento solo sommario o incompleto, conclude un processo la cui funzione conoscitiva, destinata alla salvaguardia del principio di legalità, permane (RICCIO, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova 1996, 522; CECANESE, Natura giuridica ed effetti della sentenza di patteggiamento, in Giust. pen. 1998, III, 556; LATTANZI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, in Cass. pen. 1989, 2105; LOZZI, Il patteggiamento e l'accertamento della responsabilità: un equivoco che persiste, in Riv. it. dir. proc. pen. 1998, 1396; ID., L'applicazione della pena su richiesta delle parti, in Riv. it. dir. proc. pen. 1989, 27).

Secondo questo orientamento la sentenza in questione deve essere qualificata sentenza di condanna perché non può esistere potere pubblico che possa essere autorizzato all'applicazione di una sanzione penale nei confronti di chi non ne sia stato ritenuto meritevole. L'ordinamento può seguire varie strade per raggiungere questo risultato di elementare civiltà, ma non può rinunziare all'operatività del rapporto di causa ed effetto tra l'elemento responsabilità e l'elemento punizione. Ed è ovvio che l'intera disciplina costituzionale del settore si conformi all'imprescindibilità di questo rapporto.

Il significato dlel'equiparazione della sentenza di cui all'art. 444 c.p.p. alla sentenza di condanna, fondata sull'esonero dell'onere della prova è costituito...

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