L'affidamento in prova in casi particolari tra norma e prassi

AutoreUbaldo Nazzaro
Pagine1053-1057

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@1. Cenni introduttivi: la funzione rieducativa della pena alla luce del comma 3, art. 27 Cost.

L'affidamento in prova al servizio sociale, da autorevole dottrina 1 definito, tra l'ironico e il polemico, mero «fiore all'occhiello» del riformato ordinamento penitenziario 2, avrebbe dovuto, nelle «intenzioni» dichiarate dal legislatore del '75, dare concreta attuazione, congiuntamente alle altre misure alternative alla detenzione 3 introdotte dalla riforma, al principio sancito dall'art. 27, comma 3 Cost. 4, nel quale si intravvide un recupero delle istanze special-preventive care alla scuola positiva; istanze mortificate dal Codice Rocco, in quanto da questo recepite, attraverso il sistema definito del «doppio binario», quasi interamente nel solo ambito delle misure di sicurezza, mentre alla disciplina delle pene erano state, viceversa, riservate finalità principali di prevenzione generale, tali da assorbire finanche quelle retributive 5.

In effetti, al di là del ribaltamento di un originario equilibrio tra funzioni della pena, che assegnava alla general-prevenzione un ruolo di prevalenza nei confronti della special-prevenzione 6, il terzo comma dell'art. 27 Cost. attribuisce centralità al concetto di rieducazione nel quale si sintetizzano le ambizioni di recupero e reinserimento del reo nel tessuto sociale 7.

L'ampiezza di tale affermazione, per lungo tempo ridimensionata da una costante giurisprudenza costituzionale, sarà ristabilita per effetto della sentenza del 1990 8, con la quale la stessa Corte, pronunciatasi su una questione di legittimità sollevata in riferimento anche all'articolo in esame 9, avvertì l'esigenza di dilungarsi in «qualche considerazione sul contenuto del principio emergente dal richiamato comma dell'art. 27 Cost. In realtà la passata giurisprudenza di questa Corte (come, del resto la dottrina imperante nei primi anni di avvento della Costituzione) aveva ritenuto che il finalismo rieducativo, previsto dal comma 3 art. 27, riguardasse il trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena, e ad esso fosse perciò limitato (quale esempio del lungo percorso di questo leit motiv si vedano le sentt. nn. 12 del 1966; 21 del 1971; 167 del 1973; 143 e 264 del 1974; 119 del 1975; 25 del 1979; 104 del 1982, 137 del 1983, 237 del 1984; 23, 102 e 169 del 1985; 1023 del 1988). A tale risultato si era pervenuto valutando separatamente il valore del momento umanitario rispetto a quello rieducativo, e deducendo dall'imposizione del principio di umanizzazione la conferma del carattere afflittivo e retributivo della pena. Per tal modo si negava esclusività ed assolutezza al principio rieducativo, che - come dimostrerebbe l'espressione testuale - doveva essere inteso esclusivamente quale "tendenza" del trattamento» 10.

Appare allora evidente che per la concezione «polifunzionale» della pena, come emergeva dall'orientamento anteriore alla sentenza del 1990, le finalità di rieducazione assumessero un ruolo marginale rispetto a quelle «tradizionali» della prevenzione e della difesa sociale e fossero da confinare entro l'esclusivo ambito del trattamento penitenziario.

Con la conseguenza «di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione» 11.

Occorrerà, dunque, attendere l'intervento della Corte del '90, perché fosse chiaro «che la necessità costituzionale che la pena debba "tendere" a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue», ribadendo che «il precetto di cui al comma 3 dell'art. 27 Cost. vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie» 12.

Ma se da tale pronuncia risulta riaffermata la centralità della risocializzazione (o, per lo meno, della non desocializzazione) 13 tra le finalità della funzione punitiva dello Stato, al tempo stesso la sentenza in esame, proprio nel respingere l'idea secondo cui gli obiettivi di rieducazione possano trovare realizzazione attraverso il solo trattamento penitenziario, accentua, a giudizio di altra dottrina 14, la lamentata discrasia tra le astratte affermazioni di principio contenute nell'art. 27 e l'esperienza carceraria nella quale tali istanze non trovano, poi, puntuale accoglimento.

Quanto al merito della nostra trattazione, anche qui il conflitto tra norma e prassi è evidente: da un lato, assistiamo, infatti, all'evolversi di una legislazione permeata dall'apparente intento di risultare sempre più conforme al dettato costituzionale; dall'altro, constatiamo che l'esperienza applicativa dell'affidamento in prova in casi particolari non ci fornisce elementi validi per ritenere tale misura, al pari delle altre alternative alla detenzione, espressione di una sincera volontà di reinserire incondizionatamente il condannato nella realtà sociale.

Necessita, a questo punto, affrontare, in via preliminare, la disciplina dell'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale alla luce di quegli interventi riformatori che, dal 1975 ad oggi, ne hanno modificato la struttura portante, per addentrarci, quindi, nella specifica forma prevista per i detenuti tossico o alcool-dipendenti.

@2. Evoluzione legislativa dell'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ord. penit.).

Con l'introduzione, a opera dell'art. 47 della citata legge 26 luglio 1975, n. 354, dell'affidamento in prova al servizio sociale, anche il nostro ordinamento ebbe a conoscere un'ipotesi di quel probation penitenziario di stampo anglosassone, nella forma applicabile in fase esecutiva 15.

Si tratta, in pratica, di uno strumento che rende ammissibile, una volta intervenuta una sentenza definitiva di condanna, l'espiazione delle pene brevi in un luogo diverso dalPage 1054 carcere, sotto la vigilanza dei servizi sociali, al fine di impedire il denunciato rischio di desocializzazione nel quale un soggetto incorre a contatto con gli altri detenuti.

Numerose perplessità sui presupposti per l'ammissione al «beneficio» e altrettante difficoltà interpretative erano, però, immediatamente sorte in relazione all'originaria previsione normativa.

Scetticismi solo in piccola parte sopiti dal successivo susseguirsi delle leggi 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. «Gozzini») e 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. «Simeone»), nonché della recente L. 277/2002, che, nell'ambito della riforma dell'ordinamento penitenziario, ne hanno, in pratica, riscritto l'art. 47 16.

A seguito del primo e più ampio intervento legislativo vediamo innalzato il limite di pena per la concessione della misura da due anni e sei mesi a tre anni.

Ma l'importante novità della L. 663/1986 consiste nell'aver abrogato il tanto discusso comma 2 del vecchio art. 47, che negava tale opportunità agli autori dei delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro a scopo di rapina o di estorsione 17; esclusione dalla quale emergeva palese un affievolimento della valenza rieducativa dell'istituto in esame 18. E alla soppressione di tali preclusioni fa eco l'abolizione dell'ulteriore limite rappresentato dall'applicazione di una misura di sicurezza detentiva.

Neanche la «Gozzini» riuscì, tuttavia, ad attribuire, in materia definitiva, un significato univoco al termine «pena detentiva inflitta» contenuto nel primo comma della menzionata norma 19.

Nonostante, infatti, l'affermarsi di un orientamento della Suprema Corte che, dopo iniziali incertezze, si andava consolidando nell'equiparare la «pena detentiva inflitta» a quella «da espiare in concreto», non mancarono, comunque, voci dissenzienti in dottrina 20 come in giurisprudenza 21, inclini a dare rilevanza all'originaria pronuncia di condanna, prescindendo dagli ulteriori eventi modificativi.

Per una definizione risolutiva dobbiamo, perciò, attendere, dapprima, la sentenza costituzionale 386/1989 22 e, quindi, l'intervento del legislatore del 1992, il quale, in linea con la pronuncia della Corte, ebbe ad affermare che «la disposizione del primo comma dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell'affidamento in prova al servizio sociale, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive» 23.

All'istituto in esame è attribuito il compito di garantire l'effettiva rieducazione del reo e, allo stesso tempo, di preservare i consociati dal pericolo di una sua possibile ricaduta nel delitto: a tal uopo giova la subordinazione della concessione della misura all'osservazione della personalità del soggetto interessato.

Tale osservazione, relativa a un periodo minimo ridotto da tre a un mese dalla L. 297/1985, e avente a oggetto, nella configurazione originaria, il comportamento della sola persona detenuta, può essere ora riferita a una condotta tenuta in stato di libertà, sia dal condannato reduce da custodia cautelare 24, sia dal condannato, che, dopo la commissione del reato, non abbia conosciuto la detenzione in carcere 25.

Un ampliamento delle ipotesi di affidamento emerge in misura chiara dalle considerazioni sopra svolte.

Disposta la misura, nel relativo verbale saranno indicate le prescrizioni, suscettibili di eventuali modifiche da parte del Magistrato di Sorveglianza, cui dovrà uniformarsi il reo durante il periodo di messa in prova; in caso di inosservanza di dette regole, sarà revocato il «beneficio» e il Tribunale di Sorveglianza...

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