Abuso d’ufficio e violazione della privacy

AutoreMario De Bellis
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@1. I termini della questione

– Con la sentenza che si annota (sez. V, 27 novembre 2008, n. 46509) la Cassazione esamina il caso di un ufficiale di polizia giudiziaria, il quale, avuto l’incarico dal suo dirigente di mostrare ad alcuni giornalisti (a margine di un’indagine per abusi sessuali) il luogo ove sarebbe stato consumato il reato e – dall’esterno – l’abitazione dell’indagato, di sua iniziativa faceva entrare i giornalisti all’interno dell’abitazione dell’indagato, consentendo loro di scattare fotografie di tali locali e degli oggetti ivi presenti.

Ritiene dunque la Suprema Corte che tale fatto integri gli estremi del reato di abuso d’ufficio1, ed in particolare che:

  1. la condotta dell’imputato abbia realizzato uno sviamento dei poteri, ovvero un uso distorto dei poteri funzionali e dei compiti inerenti al suo servizio;

  2. il danno ingiusto previsto come evento del reato di abuso d’ufficio possa essere integrato dalla lesione della privacy delle persone che abitavano nell’immobile nel quale indebitamente entravano i giornalisti.

Si deve dunque rilevare che non è per niente pacifico che il reato di abuso d’ufficio possa essere integrato dallo sviamento del potere, mentre non si riscontra alcun precedente in merito all’asserzione che l’evento del reato di cui all’art. 323 c.p. possa essere costituito dalla lesione della privacy di una persona.

@2. L’ingiustizia del danno consistente nella violazione della privacy

– Nella sentenza che si annota si trova dunque l’innovativa affermazione che il danno ingiusto – previsto come evento del reato di abuso d’ufficio – può essere costituito dalla lesione della privacy di una persona.

Il requisito dell’ingiustizia è stato introdotto nella formulazione della norma dell’art. 323 c.p. frutto della legge 26 aprile 1990 n. 86, ove qualificava la fattispecie in termini di dolo specifico («al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto vantaggio...») anche se in dottrina e giurisprudenza si era già in precedenza sostenuto che tale requisito fosse implicitamente contenuto nella fattispecie.

L’elemento dell’ingiustizia del vantaggio viene poi ribadito nella formulazione del 1997, che ha trasferito tale requisito dall’elemento soggettivo all’elemento oggettivo, nella sfera dell’evento.

In dottrina si è sostenuto da parte di autorevoli autori2 che quando l’atto posto in essere dal pubblico ufficiale risulti illegittimo, il profitto o il danno che ne conseguono non possono che essere ingiusti, e dunque il requisito dell’ingiustizia è, nella formulazione nor-Page 856mativa, meramente pleonastico. Si parla a tale proposito di una c.d. illiceità espressa.

Altra parte della dottrina3 ritiene che, se il legislatore ha usato il termine «ingiustizia», a tale termine si deve dare autonoma rilevanza rispetto alla illegittimità (per violazione di norme di legge o di regolamento) della condotta del pubblico ufficiale, per evitare una interpretatio abrogans.

Alla tesi dell’illiceità espressa si contrappone pertanto quella della illiceità speciale (caratteristica di quei casi nei quali un dato elemento della fattispecie si realizza se ed in quanto vi sia un contrasto con una norma extrapenale cui fa rinvio la norma incriminatrice).

Si dice infatti, con ciò mediante elaborazioni civilistiche, che il danno o vantaggio causati con la condotta di cui all’art. 323 c.p. per essere ingiusti devono essere prodotti non iure ed essere anche contra ius; la illegittimità della condotta qualifica la stessa come on iura data, il danno od il vantaggio devono essere contra ius, nel senso che se ne deve autonomamente valutare, con riferimento al risultato ottenuto in sé, l’ingiustizia.

Si esemplifica avendo a mente fattispecie nelle quali, a fronte di una condotta illegittima, non si ravvisa un’ingiustizia nel profitto, come nel caso del sindaco che rilasci una concessione edilizia senza aver acquisito il parere della commissione edilizia, in favore di un soggetto che ne aveva comunque diritto. Si possono d’altronde ipotizzare anche casi di condotte legittime che producono vantaggi ingiusti.

Ne consegue la necessità di effettuare due distinte valutazioni: la prima sulla abusività-illegittimità della condotta, per contrasto con norme di legge o regolamento, la seconda sull’ingiustizia del danno. È proprio su questi presupposti che la giurisprudenza ha elaborato il requisito della «doppia ingiustizia» dell’abuso d’ufficio (ingiusta deve essere la condotta, ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale che ne consegue).

Se dunque in alcune risalenti sentenze4 si era detto che era sufficiente che il vantaggio non fosse dovuto (iniuste datum), non richiedendosi che fosse anche turpiter datum, le sentenze successive5 si consolidano sull’affermazione della necessità della «doppia ingiustizia». Nel ragionamento giurisprudenziale si determina una restrizione dell’area tutelata dall’illecito penale, non risultando puniti gli abusi finalizzati a procurare un vantaggio lecito.

Si è pertanto affermato in dottrina6 che l’ingiustizia dell’evento rappresenta la nota di disvalore che differenzia ciò che è penalmente rilevante dal mero illecito amministrativo: verificata la violazione di norme di legge o regolamento, è proprio l’ingiustizia del risultato ad attribuire rilevanza penale alla condotta.

Bisogna poi chiedersi in cosa consista l’ingiustizia del profitto...

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