Giudice e abuso d'ufficio: la nuova strada dello sviamento del potere
Autore | De Bellis Mario |
Pagine | 418-421 |
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giur
4/2012 Rivista penale
LEGITTIMITÀ
Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma es-
senziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese
di cui dispone di beni patrimoniali, realizzato tramite lo
stesso grazie all’inganno, è definito “atto di disposizione
patrimoniale”.
20.2. La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che
apparentemente evoca categorie civilistiche rispetto alle
quali è impropria. Nulla nella formulazione della norma
consente difatti di restringere l’ambito della “collaborazio-
ne carpita mediante inganno” ad un atto di disposizione
da intendersi nell’accezione rigorosa del diritto civile e
di escludere, all’inverso, che il profitto altrui e il danno
proprio o di colui del cui patrimonio l’ingannato può le-
gittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante
una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole
e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione
della realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora
dire che per l’integrazione della truffa occorre, e basta,
un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto
dell’errore in cui è caduto per fatto dell’agente e dal quale
derivi causalmente ina modificazione patrimoniale, a in-
giusto profitto del reo e a danno della vittima.
Se, insomma, il senso riposto dell’atto di disposizione
è che il danno deve potersi imputare ad un’azione che
viene svolta all’interno della sfera patrimoniale aggredita,
causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto,
il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione
della vittima non deve necessariamente riposare nella sua
qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di
atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a
produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può
consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella
mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o
in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto
volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio
danno e determinato dall’errore indotto da una condotta
artificiosa. Non può per conseguenza in linea teorica
escludersi che tale atto volontario consista nella dazione
di denaro effettuata nella erronea convinzione di dovere
eseguire un ordine del giudice conforme a legge.
Che poi nella vicenda in esame ricorresse in concreto
tale ipotesi è questione di fatto che attiene al contesto
della giustificazione, da esaminare alla luce delle censure
sulla violazione del dovere di motivazione imposto dall’art.
578 c.p.p. (Omissis).
GIUDICE E ABUSO D’UFFICIO:
LA NUOVA STRADA DELLO
SVIAMENTO DEL POTERE
di Mario De Bellis
Con la autorevole sentenza in rassegna, le Sezioni
Unite della Cassazione, oltre ad affrontare la questione
specificamente oggetto di contrasto giurisprudenziale
(relativa alla data di scadenza del termine per il deposito
della sentenza, ove questo coincida con giorno festivo, ed
alla conseguente determinazione del termine per l’impu-
gnazione della sentenza nel predetto caso di scadenza del
termine per il deposito della sentenza in giorno festivo)
e la tematica dell’abuso del processo ad opera delle parti
processuali, interviene espressamente, ed in maniera par-
ticolarmente incisiva, sulla tematica della commissione
del reato di abuso d’ufficio (1) da parte del giudice.
Si è affermato in dottrina (2) che i magistrati non pos-
sono commettere il reato di cui all’art. 323 c.p. in quanto il
concetto d’abuso è necessariamente correlato alla natura
amministrativa dell’atto. Si sostiene infatti che, mentre in
relazione all’atto amministrativo viziato si può ricercare la
volontà dell’autore, la sentenza sarebbe espressione della
sovranità popolare, e ciò renderebbe impossibile l’individua-
zione di un movente personale. Altra autorevole dottrina (3)
ha sostenuto che il giudice può commettere abuso d’ufficio
nei casi in cui violi obblighi di astensione. Secondo altri au-
tori (4), la difficoltà di ipotizzare abusi d’ufficio commessi da
magistrati nasce dalla natura stessa dell’atto giurisdizionale,
e la possibilità, riconosciuta dagli stessi autori, che i magi-
strati commettano abusi d’ufficio passa necessariamente
attraverso l’assimilazione dell’atto giurisdizionale all’atto
amministrativo discrezionale e non vincolato.
La giurisprudenza ha invece già avuto modo di ritenere
sussistente il reato di abuso d’ufficio in capo a magistrati,
sia pure in relazione a fattispecie abbastanza particolari.
In passato, e sotto la vigenza del testo precedente del-
l’art. 323 c.p., le Sezioni Unite della Cassazione (5) ebbero
ad affermare che le norme del codice concernenti i delitti
dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione si
applicano ad ogni condotta posta in essere da soggetti le-
gati a quest’ultima da un rapporto organico, e dunque non
solo all’attività amministrativa in senso stretto, ma anche
all’attività giudiziaria. In giurisprudenza si era affermato
anche che il magistrato il quale pronunci sentenza civile
segnata da suo interesse personale commette abuso d’uffi-
cio (6); ed inoltre che non è precluso al giudice penale di
esaminare una sentenza passata in giudicato per ravvisar-
vi una condotta rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p. (7).
Nel passato più recente, e sotto la vigenza dell’attuale
testo dell’art. 323 c.p., la giurisprudenza ha avuto modo di
affermare che:
- integra il reato di cui all’art. 323 c.p. la condotta di un
magistrato della Procura Generale della Repubblica presso
la Corte d’Appello, che incaricato dal dirigente dell’ufficio
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