Sentenza nº 254 da Constitutional Court (Italy), 26 Novembre 2020

RelatoreSilvana Sciarra
Data di Resoluzione26 Novembre 2020
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 254

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Mario Rosario MORELLI;

Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dalla Corte d’appello di Napoli, nel procedimento instaurato da C. R. contro B. srl, con ordinanza del 18 settembre 2019, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di costituzione di C. R.;

udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2020 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Maria Matilde Bidetti e Arcangelo Zampella per C. R.;

deliberato nella camera di consiglio del 4 novembre 2020.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 18 settembre 2019, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2020, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

    La Corte rimettente espone di dovere decidere sul ricorso di C. R., una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento collettivo intimato il 1° luglio 2016 «per violazione dei criteri di scelta […] e comunque per violazione della procedura». Alla parte ricorrente nel giudizio principale, assunta dopo il 7 marzo 2015, si applicherebbe la disciplina dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella versione antecedente alle innovazioni apportate dal decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.

    1.1.– In primo luogo, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 1 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, quest’ultimo «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto legislativo», in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41 e 111 della Costituzione. Le disposizioni censurate irragionevolmente introdurrebbero un regime sanzionatorio differenziato «a seconda della data di assunzione» nell’ipotesi della «stessa violazione dei criteri di scelta, avvenuta contestualmente in una medesima procedura di licenziamento collettivo tra omogenei rapporti di lavoro».

    Il giudice a quo denuncia, anzitutto, la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

    Il rimettente assume che «una medesima violazione realizzatasi in un medesimo momento, afferente ai criteri di scelta di una stessa procedura» conduca a «forme di tutela profondamente difformi per misura di indennizzo, per tipologia di provvedimento e per capacità dissuasiva». Solo per i rapporti di lavoro instaurati fino al 7 marzo 2015, sarebbe riconosciuta una tutela reintegratoria, «all’interno di un modello processuale caratterizzato da efficace celerità» e con la «ricostituzione integrale della posizione previdenziale». Per i rapporti di lavoro sorti a decorrere dal 7 marzo 2015, la reintegrazione sarebbe esclusa.

    Il fluire del tempo non potrebbe legittimare «l’applicazione di sanzioni adeguate e dissuasive per alcuni e non effettive per altri». Né, con riguardo a una procedura di licenziamento collettivo, la finalità di incentivare l’occupazione potrebbe giustificare in modo plausibile un trattamento difforme di vecchi e nuovi assunti.

    Il rimettente prospetta, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto un distinto profilo, correlato agli artt. 4 e 35 Cost. Il sistema di tutela delineato dal legislatore sarebbe inidoneo a ristorare il danno subìto per effetto di un licenziamento collettivo illegittimo e non presenterebbe un’adeguata capacità di deterrenza. Il riconoscimento di una tutela eminentemente indennitaria non salvaguarderebbe il «diritto del prestatore alla conservazione del posto di lavoro, che costituisce la fonte del proprio sostentamento».

    Per le medesime ragioni, la disciplina in esame sarebbe lesiva anche dell’art. 41 Cost., in quanto comprometterebbe il «rispetto dei valori della dignità umana e dell’utilità sociale, che deve caratterizzare l’iniziativa economica privata, anche nella particolare espressione che connota il riconosciuto potere del datore di lavoro di recedere (legittimamente) dal contratto di lavoro».

    L’inadeguatezza caratterizzerebbe anche il profilo previdenziale e processuale.

    Ad avviso del rimettente, solo la reintegrazione, limitata ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, tutelerebbe «la pienezza della posizione previdenziale». La disciplina censurata, nell’escludere la reintegrazione, contrasterebbe con l’art. 38 Cost.

    Per quel che attiene alle implicazioni processuali della disciplina, l’eliminazione del “rito Fornero” (art. 1, commi da 47 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92, recante «Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita»), introdotto allo scopo di garantire in maniera più rapida i diritti del lavoratore illegittimamente licenziato, pregiudicherebbe l’effettività della tutela giurisdizionale. In contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., il nuovo modello processuale, applicabile ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, differirebbe il ristoro del pregiudizio subìto, «peraltro limitato, e non assistito dalla ricostruzione del presupposto pensionistico».

    1.2.– La Corte d’appello di Napoli, in secondo luogo, censura l’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3 del d.lgs. 23/15», sul presupposto che la materia dei licenziamenti collettivi sia riconducibile alle «competenze normative dell’Unione» e che dunque si possano invocare le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’introduzione di un sistema sanzionatorio inefficace violerebbe i «vincoli derivanti dall’adesione all’Unione Europea e ai trattati internazionali», che presentano una «diretta incidenza costituzionale per il tramite del contenuto normativo degli artt. 10 e 117, 1° co., Cost.».

    Le disposizioni censurate, «nell’ambito di una stessa procedura di licenziamento collettivo», introdurrebbero per i soli lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 «un sistema sanzionatorio peggiorativo in quanto privo dei caratteri di efficacia ed effettività della sanzione, che le fonti internazionali impongono quale necessaria tutela di un diritto sociale fondamentale». Esse violerebbero, anzitutto, gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., attraverso l’interposizione dell’art. 30 CDFUE, che riconoscerebbe il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, in conformità al diritto dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali.

    Secondo il rimettente, la previsione citata non rappresenterebbe «una disposizione meramente programmatica priva di un proprio nucleo precettivo specifico attuabile nel giudizio», ma vincolerebbe «la potestà normativa» dei singoli Stati in base agli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., a prescindere «dalla integrazione eteronoma degli interventi rimessi ai singoli Stati». Il contenuto precettivo dell’art. 30 CDFUE sarebbe definito dall’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30. Tale fonte internazionale, richiamata nelle Spiegazioni che accompagnano l’art. 30 CDFUE, identificherebbe la tutela del lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo, in un congruo indennizzo o in un’altra misura adeguata.

    Le disposizioni in esame determinerebbero «un arretramento di tutela», che porrebbe «l’assetto normativo censurato in conflitto anche con gli artt. 20, 21 e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione», rilevanti nell’ordinamento interno per il tramite degli artt. 10 e 117, primo comma, Cost. L’applicazione di sanzioni difformi per «violazioni del tutto equiparabili», nel pregiudicare «i lavoratori più giovani», si porrebbe in contrasto con i princìpi di eguaglianza (art. 20 CDFUE) e di non discriminazione (art. 21 CDFUE).

    L’apparato sanzionatorio introdotto dalle disposizioni censurate non sarebbe neppure compatibile con l’art. 47 CDFUE, che imporrebbe di «assicurare un rimedio...

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