Sentenza nº 192 da Constitutional Court (Italy), 31 Luglio 2020

RelatoreFranco Modugno
Data di Resoluzione31 Luglio 2020
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 192

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Marta CARTABIA;

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 141, comma 4-bis, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), come aggiunto dall’art. 53, comma 1, lettera c), della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), in relazione all’art. 162-bis del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Teramo nel procedimento penale a carico di M. S., con ordinanza del 3 luglio 2019, iscritta al n. 4 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2020;

udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2020 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio del 14 luglio 2020.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 3 luglio 2019, il Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 141, comma 4-bis, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), in relazione all’art. 162-bis del codice penale, «nella parte in cui non prevede che l’imputato è rimesso in termini per proporre domanda di oblazione qualora nel corso del dibattimento, su iniziativa del giudice e in mancanza di una modifica formale dell’imputazione da parte del pubblico ministero, emerga la prospettiva concreta di una definizione giuridica del fatto diversa da quella contestata nell’originaria imputazione e per la quale l’oblazione non era ammissibile».

    1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. (atti persecutori), commesso in danno di una cittadina cinese, con la quale aveva intrattenuto una relazione sentimentale. Secondo l’ipotesi accusatoria, l’imputato avrebbe posto in essere, nell’arco di alcuni mesi, reiterati comportamenti intimidatori e molesti – consistiti segnatamente nell’invio di messaggi telefonici, talvolta dal contenuto ingiurioso e intimidatorio, e in accessi non graditi sul luogo di lavoro della persona offesa, con la formulazione di minacce ove quest’ultima non avesse ripreso la relazione – così da provocarle un perdurante e grave stato di ansia e di paura e un fondato timore per la propria incolumità e da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.

    Il rimettente ritiene che, alla luce delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale – delle quali viene dato ampio conto nell’ordinanza di rimessione – la condotta ascritta all’imputato debba essere diversamente qualificata sul piano giuridico. Dall’istruttoria espletata non sarebbe infatti emerso che i comportamenti dell’imputato abbiano effettivamente causato, in capo alla persona offesa, taluno degli eventi richiesti ai fini dell’integrazione del delitto di atti persecutori (perdurante e grave stato d’ansia o di paura, fondato timore per la propria incolumità, alterazione delle abitudini di vita). Le iniziative del giudicabile si sarebbero tradotte piuttosto in meri atteggiamenti molesti, atti ad arrecare disturbo alla persona offesa in ragione del loro carattere assillante e ingiurioso, risultando quindi riconducibili alla meno grave ipotesi criminosa di cui all’art. 660 cod. pen. (molestia o disturbo alle persone).

    1.2.– A fronte della concreta prospettiva di una “correzione” della definizione giuridica del fatto, e in mancanza di una formale iniziativa in tal senso da parte del pubblico ministero, il giudice a quo aveva ritenuto di dover invitare le parti ad interloquire sul punto, in modo da garantire «il contraddittorio argomentativo (ed eventualmente probatorio) della difesa». Ciò, sulla base di una interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata dell’art. 521, comma 1, del codice di procedura penale.

    Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’art. 6, paragrafi 1 e 3, lettere a) e b), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, riconosce all’imputato il diritto ad essere informato, in termini dettagliati, non solo dei fatti materiali addebitatigli, ma anche della qualificazione giuridica degli stessi e di ogni possibile loro modificazione nel corso del giudizio. La garanzia informativa sul contenuto dell’accusa, prevista dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU quale condizione del «processo equo», risulta, infatti, strettamente correlata a quella prevista dalle successive lettere a) e b) del paragrafo 3, essendo funzionale a consentire al soggetto accusato di disporre del tempo sufficiente per preparare la propria difesa, il cui efficace esercizio non può non essere riferito anche all’eventuale modifica dell’accusa complessivamente considerata (non limitata, cioè, alla sua componente “fattuale”).

    A fronte di tali indicazioni – rileva il giudice a quo – la giurisprudenza di legittimità si è fatta promotrice di una interpretazione del citato art. 521, comma 1, cod. proc. pen. conforme ai dicta della Corte di Straburgo e al principio enunciato dall’art. 111, terzo comma, Cost. Si è affermato, in specie, che – fermo restando, alla luce del chiaro tenore della disposizione del codice di rito, il potere del giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione – tale potere non può essere, tuttavia, esercitato “a sorpresa”, ma solo previa promozione, ad opera del giudice, del contraddittorio fra le parti sulla relativa questione, posto che le strategie difensive possono mutare al cospetto di una differente qualificazione giuridica della condotta: e ciò anche nel caso di passaggio da una ipotesi criminosa più grave ad altra più mite.

    A seguito della ricordata iniziativa officiosa del rimettente, l’imputato ha presentato istanza di definizione del procedimento mediante oblazione, ai sensi dell’art. 162-bis cod. pen., sul presupposto della condivisa riconducibilità del fatto oggetto di giudizio alla fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 660 cod. pen., punita con pena alternativa: istanza sulla quale il pubblico ministero nulla ha eccepito, mentre il difensore della parte civile ne ha chiesto il rigetto.

    L’istanza in parola risulta, tuttavia, formulata per la prima volta oltre il termine perentorio previsto dallo stesso art. 162-bis cod. pen. (l’apertura del dibattimento): donde il problema preliminare della sua ammissibilità.

    1.3.– Al riguardo, il rimettente rileva come, nella persistente assenza di un intervento organico del legislatore in materia, la tematica dei rapporti tra vicende modificative dell’imputazione e diritto di accesso ai riti alternativi abbia dato luogo a plurime pronunce a carattere additivo della Corte costituzionale: pronunce che – sebbene riferite alle sole modifiche “fattuali” disciplinate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. – hanno ridisegnato i margini di esercizio della facoltà dell’imputato di scelta dei reati speciali in «un’ottica progressivamente evolutiva di tutela costituzionalmente avanzata del diritto di difesa».

    Movendo dalla premessa per cui la richiesta di riti alternativi costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa, la giurisprudenza costituzionale è pervenuta, per tappe successive, a riconoscere che, ogni qualvolta l’accusa originaria venga modificata nei suoi termini essenziali, non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni (sono citate le sentenze n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014 e n. 237 del 2012). Ciò, a prescindere dalle modalità – “fisiologiche” o “patologiche” – di emersione del dato probatorio che sorregge l’aggiornamento dibattimentale dell’accusa, con consequenziale definitivo superamento del criterio discretivo fondato sulla “prevedibilità”, o meno, da parte dell’imputato, di una simile evenienza processuale. Secondo la Corte costituzionale, «non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta» (è citata la sentenza n. 273 del 2014).

    Solo a fronte di una esauriente cristallizzazione del quadro di accusa è, infatti, possibile assegnare un termine per l’esercizio di facoltà processuali che – come quella di opzione per un rito alternativo – con quel quadro devono necessariamente misurarsi, traendo esse naturale alimento proprio dalla natura delle fattispecie incriminatrici contestate e dalle correlative basi fattuali. Di qui, dunque, il conclusivo approdo per cui, «[s]e […] la possibilità di richiedere i riti alternativi si salda a fil doppio al diritto di difesa – in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale più congeniale all’esercizio di...

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