Sentenza nº 146 da Constitutional Court (Italy), 10 Luglio 2020

RelatoreDaria de Pretis ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020
Data di Resoluzione10 Luglio 2020
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 146

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Marta CARTABIA;

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1, del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra J.C.C. e il Comune di Bergamo e altro, con ordinanza del 1° agosto 2019, iscritta al n. 244 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti gli atti di costituzione di J.C.C. e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito il Giudice relatore Daria de Pretis ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 10 giugno 2020;

deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2020.

Ritenuto in fatto

  1. – Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (da ora, anche: ReI), richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

    Il giudizio a quo è stato promosso da J.C.C., cittadina boliviana, con ricorso proposto ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro il Comune di Bergamo e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).

    La ricorrente, soggiornante in Italia dal 2010, il 6 marzo 2018 aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito di inclusione. Tale domanda è stata respinta dal Comune, per mancato uso delle modalità telematiche e per il mancato possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. La ricorrente riferiva di essere in possesso di tutti i requisiti previsti dal d.lgs. n. 147 del 2017 per beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del permesso di soggiorno di lungo periodo, ed eccepiva in giudizio l’illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 3 del d.lgs. n. 147 del 2017.

    Il rimettente argomenta l’ammissibilità dell’azione proposta, osservando che si tratta di azione contro la discriminazione e non di azione in materia previdenziale: la domanda della ricorrente «ha ad oggetto l’accertamento della discriminazione, la sua cessazione, la rimozione degli effetti e, quale conseguenza di ciò, l’erogazione della prestazione, […] per cui correttamente è stato attivato il procedimento» di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011. Non osterebbe, poi, all’ammissibilità il fatto che il Comune abbia applicato una norma legislativa «in quanto la nozione di discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla legislazione nazionale è di tipo oggettivo e ha riguardo all’effetto pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, indipendentemente dalla motivazione e dall’intenzione di chi li pone in essere».

    Il giudice a quo ritiene dirimente, per la soluzione della controversia, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, «vigente ratione temporis», là dove richiede agli stranieri il permesso di soggiorno di lungo periodo, «escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)».

    Il rimettente precisa, quanto alla rilevanza, che non sono in discussione tutti gli altri requisiti per l’accesso al beneficio, dal momento che la ricorrente «risultava residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni» e sussistevano, altresì, i requisiti relativi alla condizione economica e alla composizione del nucleo familiare. Né rileverebbe il fatto che la domanda sia stata presentata in forma cartacea, anziché telematicamente, «trattandosi solo di irregolarità formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto».

    Il rimettente ricorda che il reddito di inclusione era una «misura unica a livello nazionale di contrasto alla poverta` e all’esclusione sociale» (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2017) e ne illustra i requisiti, sia economici sia attinenti al nucleo familiare. Secondo il giudice a quo, il reddito di inclusione è una prestazione essenziale, volta al soddisfacimento di «“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana»: di fronte a tali prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti si porrebbe in contrasto con l’art. 14 CEDU (vengono citate a tal proposito le sentenze di questa Corte n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010). Il reddito di inclusione sarebbe una prestazione essenziale perché è finalizzato all’affrancamento da una «situazione di vera e propria povertà» e alla garanzia del «diritto ad un’esistenza libera e dignitosa». Il rimettente ricorda che numerose norme costituzionali si pongono l’obiettivo di contrastare la povertà economica in quanto ostacolo al godimento dei diritti fondamentali; inoltre, in base all’art. 2, comma 13, del d.lgs. n. 147 del 2017 il reddito di inclusione costituiva «livello essenziale delle prestazioni […] nel limite delle risorse disponibili nel Fondo Povertà».

    Lo Stato sarebbe soggetto a controllo giurisdizionale nel momento in cui limita il godimento di prestazioni essenziali e di diritti fondamentali; nel caso di specie, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 Cost., nonché con l’art. 14 della CEDU.

    In ogni caso, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali», la limitazione delle prestazioni sociali «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e tale principio può ritenersi rispettato solo qualora «sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste» (vengono citate le sentenze di questa Corte n. 166 e n. 107 del 2018). Il giudice a quo rileva che la disciplina in questione già contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario – per ottenere il beneficio – essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda». L’esclusione degli stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno di lungo periodo andrebbe «a penalizzare proprio i nuclei familiari più bisognosi, tradendo l’intento dichiarato dal legislatore». Infatti, molto spesso gli stranieri non riescono a ottenere il permesso in questione «in quanto titolari di un reddito inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine dall’art. 9 T.U. immigrazione».

    Il rimettente ritiene che per la norma censurata varrebbero a fortiori le argomentazioni svolte dalla Cassazione, sezione lavoro, nell’ordinanza 17 giugno 2019, n. 16164, con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione all’assegno di natalità di cui all’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)». Inoltre, la norma censurata si discosterebbe dall’art. 42 (recte, 41) del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che garantisce parità di trattamento – in materia di assistenza sociale – agli stranieri titolari di permesso di soggiorno valido almeno un anno.

    Dunque, l’art. 3, comma 1...

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