Ordinanza nº 46 da Constitutional Court (Italy), 09 Marzo 2020

RelatoreDaria de Pretis
Data di Resoluzione09 Marzo 2020
EmittenteConstitutional Court (Italy)

ORDINANZA N. 46

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Marta CARTABIA;

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promosso dal Tribunale ordinario di Vercelli nel procedimento vertente tra P. T. e la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Vercelli e altro, con ordinanza del 15 febbraio 2019, iscritta al n. 84 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020 il Giudice relatore Daria de Pretis;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2020.

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Vercelli, con ordinanza del 15 febbraio 2019 (reg. ord. n. 84 del 2019), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento all’art. 3 della Costituzione;

che la questione è sorta nel corso di un giudizio promosso da P. T. nei confronti della Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Vercelli e del Ministro dell’interno, avente per oggetto il decreto del 20 dicembre 2018 con cui il Prefetto di Vercelli ha dichiarato la sussistenza in capo a P. T. di una causa di sospensione di diritto dalla carica di Sindaco di B. ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, secondo cui «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10 […] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)»;

che il giudice a quo riferisce che la sospensione dalla carica di sindaco si fonda su una sentenza di condanna non definitiva per il delitto di concorso in peculato di cui agli artt. 110 e 314 del codice penale, compreso tra quelli indicati all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 235 del 2012, e che la condanna è stata pronunciata dalla Corte di appello di Torino il 24 luglio 2018, in riforma della sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado dal Tribunale ordinario di Torino il 5 gennaio 2017 con la formula «perché il fatto non sussiste»;

che la norma è censurata nella parte in cui prevede la sospensione per diciotto mesi dalle cariche indicate all’art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 anche di coloro che, già assolti con sentenza di primo grado, abbiano riportato in appello condanna non definitiva per uno dei delitti indicati allo stesso art. 10, comma 1, lettere a), b) e c);

che, quanto alla rilevanza, il rimettente precisa che per definire la controversia è necessario applicare la norma censurata, poiché il provvedimento prefettizio impugnato, pur non indicando la durata del periodo di sospensione dalla carica di sindaco, non sarebbe per ciò solo illegittimo, dovendo essere «integrato dal disposto del comma 4 dell’art. 11» del d.lgs. n. 235 del 2012, secondo cui «[l]a sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi» (primo periodo);

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che la condanna in appello determina una durata differente della sospensione dalla carica a seconda che l’amministratore sia stato assolto oppure sia stato già condannato in primo grado: in caso di condanna in appello a seguito di una assoluzione in primo grado la durata della sospensione sarebbe, come visto, di diciotto mesi, mentre in caso di condanna confermata in appello sarebbe di dodici mesi, stante che ai sensi del secondo periodo del citato comma 4, qualora «l’appello proposto dall’interessato avverso la sentenza di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva, decorre un ulteriore periodo di sospensione che cessa di produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto» (secondo periodo);

che da tale assetto normativo sorgerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento dei condannati per la prima volta in secondo grado rispetto a coloro che, per lo stesso delitto, abbiano riportato una doppia sentenza di condanna, in quanto solo nei confronti di questi ultimi la sospensione dalle cariche avrebbe una durata di dodici mesi anziché di diciotto, con violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.;

che secondo il rimettente – che evoca lo scopo perseguito dal legislatore con il d.lgs. n. 235 del 2012, di allontanare chi ha commesso determinati reati dall’amministrazione della cosa pubblica anche con misure cautelari, come la...

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