Sentenza nº 34 da Constitutional Court (Italy), 26 Febbraio 2020

RelatoreFranco Modugno
Data di Resoluzione26 Febbraio 2020
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 34

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Aldo CAROSI;

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11, recante «Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103», promosso dalla Corte d’appello di Messina nel procedimento penale a carico di G. A., con ordinanza del 18 gennaio 2019, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 18 gennaio 2019, la Corte d’appello di Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11, recante «Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103», nella parte in cui prevede che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

    1.1.– La Corte rimettente premette di essere investita, in grado di appello, del processo nei confronti di una persona imputata del delitto di cui all’art. 570, secondo comma, del codice penale (violazione degli obblighi di assistenza familiare), per aver omesso ripetutamente di corrispondere al coniuge separato l’assegno mensile per il mantenimento del figlio minore, facendo mancare così a quest’ultimo i mezzi di sussistenza.

    Riferisce il giudice a quo che, con sentenza del 7 maggio 2018, il Tribunale ordinario di Patti aveva condannato l’imputato alla pena, condizionalmente sospesa, di un mese di reclusione e 500 euro di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, da liquidare in separato giudizio.

    Contro la sentenza ha proposto appello il Procuratore generale della Repubblica, contestando la quantificazione della pena, la concessione del beneficio della sospensione condizionale e la mancata liquidazione del danno in favore della parte civile.

    Secondo l’appellante, la pena inflitta dal primo giudice, prossima al minimo edittale, risulterebbe inadeguata per difetto rispetto alla gravità del fatto, stante il profondo disinteresse manifestato dall’imputato nei confronti del figlio.

    A torto, inoltre, sarebbe stata concessa la sospensione condizionale, dato che la protratta «insensibilità» ai doveri di padre non consentirebbe di ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.

    La mancata liquidazione del danno in favore della parte civile tradirebbe, infine, le finalità della costituzione di parte civile nel processo penale, costringendo la persona offesa a intraprendere un ulteriore giudizio davanti al giudice civile per il ristoro dei danni.

    Nel proporre il gravame, il Procuratore generale ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 11 del 2018, nella parte in cui prevede che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

    Ad avviso dell’appellante, la disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., per ragioni analoghe a quelle indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 2007, con riferimento alle modifiche introdotte dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento). Il vulnus al potere di impugnazione del pubblico ministero recato dal d.lgs. n. 11 del 2018 è, di per sé, inferiore a quello inferto dalla citata legge, oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale: la parte pubblica conserva, infatti, il potere appellare le sentenze di assoluzione, venendogli impedito solo l’appello contro le sentenze di condanna. Nella sostanza, tuttavia, la differenza risulterebbe «esigua quantitativamente ed inesistente qualitativamente». In molti casi, infatti, la condanna potrebbe essere talmente ingiusta, per l’esiguità della pena inflitta, da «somigliare moltissimo» a una assoluzione, tanto da determinare l’assurdo per cui l’imputato dovrebbe sperare di essere condannato a una pena particolarmente tenue, piuttosto che di essere assolto.

    La Procura generale denuncia, altresì, la violazione dell’art. 97 Cost., rilevando come la limitazione del potere di impugnazione del pubblico ministero non raggiunga l’obiettivo di rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia, riducendo il numero degli appelli. Le impugnazioni della parte pubblica investono, infatti, solo una percentuale assolutamente esigua delle sentenze di primo grado, laddove, invece, l’imputato può sempre appellarle in regime di divieto di reformatio in peius.

    Avverso la sentenza del Tribunale ordinario di Patti ha proposto appello anche l’imputato, lamentando che il primo giudice, nel ritenere integrata l’ipotesi criminosa contestata, abbia fatto malgoverno delle risultanze processuali e che, in ogni caso, non abbia riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e, conseguentemente, irrogato una pena inferiore.

    1.2.– Ad avviso della Corte rimettente, le questioni di legittimità costituzionale prospettate dal Procuratore generale della Repubblica sarebbero rilevanti e non manifestamente infondate.

    A fronte dei limiti posti dal novellato art. 593 cod. proc. pen., esso giudice a quo, in presenza dell’appello dell’imputato, potrebbe conoscere anche del gravame del pubblico ministero ai sensi dell’art. 580 cod. proc. pen., ma «dovrebbe comunque valutarlo come ricorso per cassazione e dichiararlo inammissibile». Il Procuratore generale, infatti, non ha prospettato alcuna violazione di legge, ma ha dedotto unicamente profili di merito, quali la quantificazione della pena e l’errata effettuazione della prognosi rilevante ai fini della concessione della sospensione condizionale.

    Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni.

    1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte messinese osserva come dalla giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra le parti processuali emerga il principio in forza del quale, esclusa l’esigenza di una totale sovrapposizione dei poteri dell’accusa e della difesa, la parità tra le stesse può essere, tuttavia, alterata solo nel rispetto del parametro della ragionevolezza.

    Nella sentenza n. 26 del 2007 la Corte costituzionale ha, in particolare, affermato che il principio di parità delle parti rappresenta un connotato essenziale dell’intero processo, e non già una garanzia riferita al solo procedimento probatorio. Pertanto, anche eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbono risultare «sorrette da una ragionevole giustificazione».

    Nella medesima sentenza, la Corte costituzionale ha pure escluso che l’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero possa ritenersi compensata dall’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione, all’epoca operato dalla legge n. 46 del 2006: e ciò non solo perché tale ampliamento va a favore di entrambe le parti, e non soltanto del pubblico ministero, ma anche e soprattutto perché il rimedio del ricorso per cassazione non attinge, comunque sia, alla pienezza del riesame di merito consentito dall’appello.

    Nel caso oggi in esame, la limitazione dei poteri di appello impedirebbe in radice al pubblico ministero di contestare l’irrogazione di una pena che, per quanto rientrante nella cornice edittale, si ponga in contrasto con i parametri di cui all’art. 133 cod. pen., apparendo del tutto inadeguata rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del reo. Tale questione, investendo il merito della decisione, non potrebbe essere, infatti, mai prospettata con il ricorso per cassazione.

    In pratica, mentre all’imputato è consentito proporre appello contro qualsiasi decisione che ritenga non pienamente satisfattiva, la norma censurata darebbe per scontata l’assenza dell’interesse del pubblico ministero a impugnare una...

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