Sentenza nº 278 da Constitutional Court (Italy), 20 Dicembre 2019

RelatoreFranco Modugno
Data di Resoluzione20 Dicembre 2019
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 278

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Aldo CAROSI;

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 3) e 8), prima parte, della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Reggio Emilia nel procedimento penale a carico di G. B. e D. A. con ordinanza del 31 gennaio 2019, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 31 gennaio 2019 (r. o. n. 83 del 2019), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Reggio Emilia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

    1. dell’art. 3, primo comma, numeri 3) e 8), prima parte, della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui) – che puniscono, rispettivamente, la tolleranza abituale e il favoreggiamento della prostituzione – «nella parte in cui si applicano anche alla prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata», per contrasto con il principio di offensività ricavabile dagli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione;

    2. del solo art. 3, primo comma, numero 8), prima parte, della legge n. 75 del 1958, per contrasto con il principio di precisione, desumibile dall’art. 25 Cost.

    1.1.– Il giudice a quo premette di essere chiamato a giudicare, nelle forme del giudizio abbreviato, due persone imputate dei reati previsti dalle norme censurate, con l’aggravante di cui all’art. 4, numero 7, della legge n. 75 del 1958 (fatto commesso in danno di più persone), per avere, in concorso tra loro – l’uno quale gestore effettivo di due circoli privati, l’altro quale suo «factotum» – favorito e, comunque sia, tollerato abitualmente l’attività di meretricio di ragazze che figuravano come socie dei circoli stessi, mettendo loro a disposizione alcuni locali dietro compenso.

    Riferisce il rimettente che, dalle risultanze processuali, era in effetti emerso che i due circoli privati, ai quali gli imputati «davano il loro apporto» nelle qualità dianzi indicate, fungevano da luogo di incontro tra giovani donne – peraltro «maggiorenni e “autonome”» – e uomini, per l’effettuazione di prestazioni sessuali a pagamento. Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni.

    1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che entrambe le figure criminose – la tolleranza abituale e il favoreggiamento della prostituzione – violino il principio di necessaria offensività del reato, ricavabile dagli artt. 13, 25 e 27 Cost., in base al quale il legislatore può punire esclusivamente fatti che ledano un bene giuridico.

    A sostegno della censura, il giudice a quo osserva come dalle figure criminose in discorso esulino elementi di costrizione o di inganno, i quali assumono rilievo solo ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 4, numero 1), della legge n. 75 del 1958: elementi non riscontrabili, peraltro, nella vicenda oggetto del giudizio principale.

    Risulterebbe, poi, del tutto abbandonata l’idea che l’interesse tutelato possa essere identificato nella salute pubblica, in relazione al pericolo di diffusione delle malattie veneree.

    La moralità pubblica e il buon costume sarebbero, a loro volta, quasi scomparsi come beni giuridici, con il progressivo svuotamento del Titolo XI del Libro II del codice penale. La prima sarebbe «un relitto del passato», per la sua radicale incompatibilità con un ordinamento laico, mentre il secondo sopravviverebbe solo come protezione della sensibilità individuale contro l’esposizione a scene sessuali non gradite: ipotesi che, nella specie, non viene in considerazione.

    Diverso sarebbe il discorso con riguardo alla dignità della persona che si prostituisce. Se si fa riferimento alla dignità oggettiva, quale derivante dalle «norme di cultura», si avrebbe un oggetto di tutela plausibile e verisimilmente corrispondente alle intenzioni del legislatore, ma incompatibile con il «principio di laicità» e con la libertà di...

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