Sentenza nº 159 da Constitutional Court (Italy), 25 Giugno 2019

RelatoreSilvana Sciarra
Data di Resoluzione25 Giugno 2019
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 159

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel giudizio instaurato da Amelia Capilli contro l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 12 aprile 2018, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di costituzione di Amelia Capilli e dell’INPS, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Federazione Confsal-Unsa;

udito nella udienza pubblica del 17 aprile 2019 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Antonio Mirra per Amelia Capilli, Flavia Incletolli per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gianfranco Pignatone per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 12 aprile 2018, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2018, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispongono il pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio spettanti ai dipendenti pubblici.

    1.1.– Il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso proposto da Amelia Capilli, dipendente del Ministero della giustizia, «in pensione per anzianità dal 1–9–2016», che ha chiesto il pagamento dell’indennità di buonuscita senza dilazioni e rateizzazioni e comunque con il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione dal dovuto al saldo. In virtù delle disposizioni censurate, la parte ricorrente nel giudizio principale percepirebbe l’indennità di buonuscita «in maniera rateale e dilazionata, con pagamento dell’ultima rata al settembre del 2020».

    In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente osserva che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, renderebbe «illegittima la dilazione e rateizzazione della indennità di buonuscita» e condurrebbe all’accoglimento delle pretese della parte ricorrente.

    1.2.– Nell’avvalorare la non manifesta infondatezza delle questioni proposte, il giudice a quo muove dal rilievo che «il trattamento per la cessazione del rapporto di lavoro» si configura come retribuzione, seppure differita, e che consente al lavoratore di fare fronte alle «principali necessità di vita» e agli impegni finanziari già assunti.

    La disciplina in esame, nel prevedere «una corresponsione dilazionata e rateale del trattamento di fine rapporto» per i soli dipendenti delle pubbliche amministrazioni, contravverrebbe al principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.). Il trattamento deteriore riservato ai dipendenti pubblici, difatti, non potrebbe rinvenire alcuna ragionevole giustificazione nella specialità del rapporto di lavoro pubblico.

    La disciplina in esame contrasterebbe con l’art. 36 Cost., che tutela il diritto del lavoratore di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, idonea «a garantire al lavoratore una utilità congrua rispetto al valore professionale dell’attività prestata». Un pagamento dilazionato comprometterebbe l’adeguatezza stessa della retribuzione.

    Il legislatore, in violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), avrebbe bilanciato in modo arbitrario il «diritto tutelato dall’art. 36 Cost. con l’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica».

    Il rimettente, che pure reputa legittime restrizioni generali, destinate a operare, in una dimensione solidaristica e in un ciclo pluriennale, per l’intero comparto pubblico, osserva che l’intervento del legislatore deve fondarsi sulla «particolare gravità della situazione economica e finanziaria del momento» e collocarsi «in un disegno organico improntato a una dimensione programmatica».

    Nel caso di specie, il giudice a quo denuncia una «protrazione, in via permanente, della dilazione e scaglionamento» dei trattamenti di fine servizio, che rischierebbe di «oscurare il criterio di proporzionalità della retribuzione, riferito alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» (si menziona la sentenza n. 178 del 2015).

  2. – Con atto depositato il 30 ottobre 2018, si è costituita in giudizio Amelia Capilli, parte ricorrente nel giudizio principale, e ha chiesto di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Roma.

    La parte costituita argomenta che per i «soli dipendenti in rapporto di pubblico impiego», senza alcuna giustificazione apprezzabile, si dilatano i tempi di erogazione del trattamento di fine servizio, con evidente disparità di trattamento rispetto ai lavoratori privati.

    Il pagamento in ritardo dei trattamenti di fine servizio, che costituiscono retribuzione differita, si porrebbe in contrasto anche con il principio di proporzionalità della retribuzione, sancito dall’art. 36 Cost.

    L’esigenza di contenimento della spesa pubblica potrebbe giustificare un intervento temporaneo e legato a una situazione di «emergenza contabile», e non già una misura definitiva, che, in mancanza di ogni meccanismo compensativo, «determina una perdita patrimoniale certa».

    Peraltro, il differimento disposto dalle previsioni censurate si tradurrebbe in un mero rinvio della spesa, che svilirebbe «la capacità autorganizzativa» dell’amministrazione datrice di lavoro e lederebbe l’affidamento «del pubblico dipendente nell’ordinario sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento collegato alla cessazione del rapporto di impiego».

  3. – L’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) si è costituito in giudizio con atto depositato il 26 ottobre 2018 e ha chiesto di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale.

    Le disposizioni censurate supererebbero «lo scrutinio “stretto” di costituzionalità», in quanto rispetterebbero tutte le condizioni che questa Corte ha enucleato nella sentenza n. 173 del 2016 con riguardo al contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici più elevati.

    Anche nel caso di specie, il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici sarebbe improntato alla solidarietà previdenziale, in quanto concorrerebbe a «finanziare gli oneri del sistema previdenziale, peraltro in un contesto di grave crisi del sistema stesso», e sarebbe rispettoso del principio di proporzionalità, alla luce della sua incidenza «sui trattamenti più elevati».

    Non sussisterebbe la denunciata violazione degli artt. 3 e 36 Cost.

    Il trattamento di fine servizio, gestito e liquidato dall’INPS e finanziato con un contributo previdenziale obbligatorio, non potrebbe essere equiparato al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’art. 2120 del codice civile e sarebbe comunque – rispetto a quest’ultimo – più vantaggioso.

    Quanto alla conformità all’art. 36 Cost., non dovrebbe essere valutata con riguardo a singoli istituti, ma alla stregua di tutte le voci del trattamento complessivo del lavoratore, «peraltro in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza».

  4. – Con atto depositato il 30 ottobre 2018, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale.

    Il differimento dell’erogazione delle indennità di buonuscita e di altre indennità analoghe non pregiudicherebbe la garanzia sancita dall’art. 36 Cost., in quanto le indennità spettanti ai dipendenti pubblici non sarebbero negate o decurtate, ma soltanto, e soltanto in parte, differite mediante un meccanismo che «privilegia i soggetti con importi di prestazione più bassi». Tale meccanismo, destinato a operare per tutti i dipendenti pubblici e ispirato a «esigenze di solidarietà sociale», sarebbe volto «a fronteggiare la grave situazione di crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase del processo di integrazione europea».

    Non si ravviserebbe, inoltre, alcuna ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. La disciplina applicabile ai due settori sarebbe, difatti, eterogenea e, con riguardo al lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si apprezzerebbero inderogabili esigenze di equilibrio finanziario, estranee all’àmbito del lavoro privato. Peraltro, i trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici, quanto a criteri di computo e a modalità di finanziamento, presenterebbero...

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