Sentenza nº 176 da Constitutional Court (Italy), 12 Luglio 2019

RelatoreGiovanni Amoroso
Data di Resoluzione12 Luglio 2019
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 176

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di appello di Venezia, nel procedimento penale a carico di U. Z., con ordinanza del 9 gennaio 2018, iscritta al n. 115 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 aprile 2019 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 9 gennaio 2018, la Corte d’appello di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziché al giudice civile impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio».

    La Corte rimettente assume che la disposizione si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, «perché l’attuale attribuzione altera significativamente, con palese assenza di razionale giustificazione, lo svolgimento della essenziale propria e naturale funzione del giudice penale dell’impugnazione per la deliberazione nel merito sul contenuto della pretesa punitiva pubblica», e con l’art. 111, secondo comma, Cost., nonché con i «principi costituzionali di efficienza ed efficacia della giurisdizione» perché la cognizione «su meri interessi civili, per la quale vi è già sede autonoma adeguata efficace e propria», aggravando il lavoro del giudice penale d’appello, già impegnato nella definizione di un elevatissimo numero di processi, dà luogo a un’irragionevole protrazione della durata dei processi.

    Premette la Corte di dover decidere sull’appello con cui la società STUDIO ULM srl, parte civile nel processo di primo grado, ha impugnato la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto pronunciata dal Tribunale ordinario di Treviso nei confronti di U. Z., imputato dei reati previsti dagli artt. 615-ter (Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico) e 615-quater (Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici) del codice penale.

    Osserva il Collegio che la norma censurata è frutto di una scelta compiuta dal legislatore con l’emanazione del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), in un contesto assai diverso da quello odierno e in una prospettiva di razionalizzazione del sistema che, alla prova dei fatti, non si è realizzata nei termini auspicati. Infatti, gli effetti deflattivi che la riforma perseguiva non si sono verificati e il numero dei processi pendenti dinanzi alle corti d’appello è sensibilmente aumentato.

    Secondo la Corte rimettente tale situazione è imputabile a plurime ragioni strutturali.

    In primo luogo, con l’abolizione della figura del pretore ad opera del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), i giudizi di secondo grado, per i quali era competente il tribunale, sono stati devoluti alla competenza delle corti d’appello, aggravandone notevolmente il carico di lavoro.

    Per altro verso, la convinzione che, con l’avvento del nuovo codice di procedura penale, i processi sarebbero stati definiti, prevalentemente, mediante il ricorso ai riti alternativi si è rivelata inesatta. L’effetto deflattivo dei riti alternativi non ha risposto alle aspettative.

    A ciò si aggiunge che il giudizio d’appello, non di rado, implica la necessità della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Infatti, in armonia con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità, confortate dal dato normativo, l’istruttoria dev’essere rinnovata quando, a fronte dell’impugnazione di una sentenza di proscioglimento, l’eventuale accoglimento dei motivi d’appello è subordinato a una rivalutazione di prove dichiarative; ciò finanche nei casi in cui in primo grado si sia proceduto con rito abbreviato non condizionato.

    La concomitanza di queste circostanze, che mal si coniugano con l’attribuzione al giudice penale di una competenza circoscritta a questioni inerenti la sola responsabilità civile, ha determinato un progressivo allungamento dei tempi di definizione dei processi.

    Questa conseguenza ha contribuito ulteriormente all’incremento del contenzioso, incoraggiando, soprattutto per i reati di minor gravità, le impugnazioni finalizzate al raggiungimento del termine di prescrizione.

    Per fronteggiare questa emergenza, i giudici tendono a dare la precedenza ai processi per i quali è più accentuato il rischio di prescrizione, posponendo quelli aventi a oggetto meri interessi civili. Ne discende che per questi ultimi i tempi di definizione risultano maggiori rispetto sia agli altri processi penali sia a quelli di un ordinario giudizio civile.

    Alla luce di tali considerazioni, la Corte rimettente sostiene che, nell’attuale contesto, la scelta operata dal legislatore nel 1988 non risponde più a criteri di razionalità e ragionevolezza. Dunque, «attribuire oggi al giudice penale, ed in particolare alla Corte d’appello penale, anziché al giudice civile, la cognizione delle impugnazioni della sola parte civile avverso le sentenze di proscioglimento costituisce scelta in atto manifestamente irrazionale e oggi del tutto priva di alcuna giustificazione».

    La norma, insomma, sarebbe divenuta anacronistica, inadeguata e disfunzionale. Del resto, prosegue il collegio, è ben possibile che una disposizione, inizialmente in sintonia con la Costituzione, si riveli irragionevole a seguito del...

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