Sentenza nº 29 da Constitutional Court (Italy), 28 Febbraio 2019

RelatoreSilvana Sciarra
Data di Resoluzione28 Febbraio 2019
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 29

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, nel procedimento instaurato da Telecom Italia spa contro Alfonso Fiore, con ordinanza del 2 ottobre 2017, iscritta al n. 13 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di costituzione di Telecom Italia spa e di Alfonso Fiore, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’8 gennaio 2019 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Roberto Romei per Telecom Italia spa, Riccardo Bolognesi e Mauro Orlandi per Alfonso Fiore e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza depositata il 5 ottobre 2017 e iscritta al n. 13 del registro ordinanze 2018, la Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, ha sollevato «questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c.», in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

    1.1.– In punto di fatto, la Corte rimettente espone di dovere decidere sull’appello proposto da Telecom Italia spa contro la sentenza del Tribunale di Roma, che ha riconosciuto anche in capo alla società appellante l’obbligo di pagare le retribuzioni, pur già corrisposte dalla società cessionaria, subentrata in virtù di un atto di cessione di ramo di azienda dichiarato illegittimo.

    Il giudice a quo assume che l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda, oramai passato in giudicato, determini la ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro alle dipendenze della società appellante e conferisca ai lavoratori il diritto di reclamare la retribuzione sia nei confronti della società cedente sia nei confronti della società cessionaria, che benefici della prestazione lavorativa in base all’art. 2126 del codice civile.

    L’obbligazione della società cedente, risarcitoria per il tempo che intercorre tra il trasferimento del ramo di azienda e la pronuncia che ne accerti l’illegittimità o l’inopponibilità, presenterebbe per contro natura retributiva per il periodo successivo a tale pronuncia.

    Non sarebbe risolutivo, in senso contrario, il fatto che il datore di lavoro non abbia ricevuto la prestazione lavorativa, in quanto tale circostanza sarebbe imputabile in via esclusiva al suo ingiustificato rifiuto.

    Non sarebbe decisiva neppure l’espressa qualificazione in termini risarcitori dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo anche per il periodo successivo alla pronuncia di reintegra. Tale qualificazione, sancita dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), non soltanto sarebbe innovativa rispetto alla disciplina previgente, che qualificava in termini retributivi l’obbligazione del datore di lavoro per il periodo successivo alla sentenza di reintegra, ma sarebbe speciale e derogatoria.

    Il rimettente ricorda che, anche per il periodo successivo all’accertamento dell’illegittima apposizione del termine, il lavoratore ha diritto alle retribuzioni relative al rapporto di lavoro ricostituito ope iudicis, anche quando il datore di lavoro rifiuti di ricevere la prestazione lavorativa.

    Se il datore di lavoro che ha rifiutato arbitrariamente la prestazione offerta dal lavoratore ceduto non fosse obbligato a pagare la retribuzione, potrebbe rimanere «inottemperante ad libitum». In contrasto con l’art. 24 Cost., sarebbe così vanificata l’utilità dell’azione di accertamento della nullità o dell’inefficacia o dell’inopponibilità della cessione.

    La natura retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro non consentirebbe neppure di invocare la compensatio lucri cum damno, quando sia già stata pronunciata la sentenza che ha accertato l’illegittimità della cessione del ramo di azienda e il datore di lavoro persista nell’inosservanza dell’ordine giudiziale di riammissione.

    1.2.– Il rimettente osserva che l’orientamento oramai consolidato della giurisprudenza della Corte di cassazione nega al lavoratore ceduto, che non sia stato riammesso dopo l’accertamento definitivo dell’illegittimità della cessione e che sia stato già retribuito dal cessionario, il diritto di percepire la retribuzione da parte del cedente.

    Tale orientamento, che potrebbe indurre il cedente a «impedire sine die ai lavoratori ceduti di tornare alle sue dipendenze», frustrerebbe l’interesse ad agire del lavoratore ceduto e non sarebbe coerente né con la «natura retributiva del diritto del dipendente successivamente alla sentenza di merito», affermata dalla Corte di cassazione per le ipotesi di illegittima apposizione del termine, né con la struttura necessariamente trilaterale della cessione del contratto. Sarebbe indispensabile l’accordo di tutti gli interessati per perfezionare il negozio di cessione e il cedente non potrebbe essere liberato dall’obbligo retributivo, in mancanza del consenso del lavoratore ceduto.

    Il giudice a quo ribadisce che, in virtù del principio di corrispettività delle prestazioni, l’obbligo retributivo viene meno nel periodo che intercorre tra la cessione del ramo di azienda e la sentenza di merito che ne accerta l’inefficacia. Tuttavia, dopo l’accertamento del giudice, sarebbe ripristinata la lex contractus, che obbliga il lavoratore a riprendere a lavorare presso il cedente e il cedente a pagare la retribuzione.

    Secondo il rimettente, il datore di lavoro che persista nel rifiutare la prestazione del lavoratore, nonostante l’intimazione di riceverla (art. 1217 cod. civ.) racchiusa in un atto stragiudiziale anteriore o nel «ricorso introduttivo del giudizio volto alla declaratoria di inefficacia (o inopponibilità) del trasferimento di ramo d’azienda», è comunque tenuto, secondo la disciplina della mora credendi, a pagare la retribuzione (art. 1206 cod. civ.) e a risarcire i danni patiti dal lavoratore (art. 1207 cod. civ.).

    Il diritto vivente, per il periodo successivo alla sentenza di merito che abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile il trasferimento del ramo di azienda, riconoscerebbe una responsabilità meramente risarcitoria del datore di lavoro moroso.

    La disciplina della mora del creditore, nell’interpretazione accreditata dal diritto vivente, contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina di tutti i rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato e alla disciplina della nullità dell’apposizione del termine, per il periodo successivo alla sentenza. In entrambe le ipotesi, evocate come termine di raffronto, il creditore moroso sarebbe comunque obbligato a eseguire la propria prestazione e non solo a risarcire i danni arrecati dalla mora.

    La disciplina in esame sarebbe lesiva anche dell’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), in quanto consentirebbe al datore di lavoro di «sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in giudicato) con cui sia stata dichiarata la nullità o l’inefficacia o l’inopponibilità del trasferimento di ramo d’azienda nei confronti del lavoratore».

    Sarebbe violata anche la garanzia costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), inscindibilmente connessa con l’effettività della tutela.

    Il giudice a quo denuncia il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, sul presupposto che un processo possa dirsi equo soltanto quando «consenta di ottenere la tutela specifica (ove giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale».

    1.3.– Il rimettente reputa rilevanti le questioni di legittimità costituzionale, in quanto l’accertamento della conformità a Costituzione del diritto vivente condurrebbe all’accoglimento dell’appello proposto...

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