Sentenza nº 197 da Constitutional Court (Italy), 12 Novembre 2018

RelatoreFranco Modugno
Data di Resoluzione12 Novembre 2018
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 197

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giorgio LATTANZI Presidente

- Aldo CAROSI Giudice

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Franco MODUGNO ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

- Giovanni AMOROSO ”

- Francesco VIGANÒ ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 12, n. 5 (recte: art. 12, comma 5), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», promossi dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con due ordinanze del 12 luglio 2017, iscritte ai numeri 158 e 159 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti l’atto di costituzione di L. F., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 3 luglio e nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 il Giudice relatore Franco Modugno, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Federico Tedeschini per L. F. e l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 12 luglio 2017 (r.o. n. 159 del 2017), la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale «dell’art. 12 n. 5» (recte: art. 12, comma 5) del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», «nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lett. e)», del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

    1.1.– Il giudice rimettente premette di procedere nei confronti di una magistrata, incolpata di un illecito disciplinare riconducibile alla ipotesi di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale prevede che costituisce illecito disciplinare al di fuori dell’esercizio delle funzioni, l’ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d’appello nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai difensori di costoro, nonché ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti.

    In particolare, alla magistrata incolpata, in servizio quale sostituto procuratore della Repubblica, è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro e, comunque, remunerato con la dazione di un importo non inferiore a 180.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro). La magistrata in questione, imputata in relazione ai medesimi fatti per il delitto di cui all’art. 317 cod. pen., è stata peraltro assolta in sede penale dalla relativa imputazione, non essendo stata ritenuta provata, in relazione ai vantaggi ottenuti, alcuna sua condotta costrittiva né meramente induttiva (in relazione alla possibile derubricazione nel delitto di cui all’art. 319-quater cod. pen.) nei confronti dell’imprenditore.

    La sanzione disciplinare applicabile per tale ipotesi di illecito è, in via obbligatoria, quella della rimozione, a norma dell’art. 12, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

    1.2.– Reputa il giudice disciplinare che l’obbligatorietà che caratterizza tale sanzione risulti in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto fondata su una presunzione assoluta, svincolata da qualsiasi apprezzamento di proporzionalità e di «indispensabile gradualità sanzionatoria», secondo quanto ripetutamente affermato da questa Corte nella propria giurisprudenza.

    Sottolinea la Sezione rimettente di essere consapevole dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nello stabilire le condotte punibili e le sanzioni applicabili, ma ciò nei limiti della non manifesta irragionevolezza, derivante dalla giusta proporzione tra illecito commesso e sanzione applicabile.

    Tuttavia – sottolinea l’ordinanza di rimessione – è proprio sul versante della compatibilità tra infrazione e prosecuzione del rapporto di impiego che la giurisprudenza costituzionale ha affermato che l’infrazione deve essere valutata senza alcun automatismo, graduando la sanzione in rapporto al caso concreto. Ciò in piena conformità, secondo la Sezione rimettente, con la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale la scelta della sanzione da applicare deve essere effettuata non in astratto, ma in concreto, alla luce di tutte le circostanze del caso, specie là dove venga in considerazione la più grave sanzione della rimozione, la quale presuppone che l’illecito sia di tale gravità da far ritenere inadeguata qualsiasi altra sanzione in riferimento alla tutela dei valori che si intendono salvaguardare (in questo senso, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze n. 23778 del 24 novembre 2010 e n. 15399 del 15 ottobre 2003).

    A sostegno della propria prospettazione, la Sezione rimettente invoca inoltre la sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2015, che censurò l’automatismo della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio del magistrato nell’ipotesi di sua condanna per l’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, ritenendo che tale meccanismo privasse irragionevolmente il giudice disciplinare di ogni potere discrezionale in relazione all’adeguatezza della sanzione accessoria alla consistenza e gravità delle svariate condotte riconducibili alla previsione normativa allora all’esame.

    Per altro verso – prosegue la Sezione rimettente – l’irragionevolezza della obbligatoria applicazione della sanzione più grave risalterebbe ancor di più a causa della «genericità ed elasticità» che caratterizzano le ipotesi di agevolazione previste dall’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006.

    È ben vero che questa Corte, nella sentenza n. 112 del 2014, ha ritenuto non fondata una questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 8, primo comma, lettera c), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), che prevede la destituzione di diritto dai ruoli della amministrazione della pubblica sicurezza in caso di applicazione di una misura di sicurezza di cui all’art. 215 del codice penale, sottolineando come le peculiarità connesse alle funzioni esercitate giustifichino una disciplina che valuti con particolare rigore la condotta degli appartenenti a quella amministrazione. Ma tali rilievi, secondo la Sezione rimettente, non potrebbero essere evocati come precedente contrario, in quanto, nel caso allora scrutinato, veniva in discorso un giudizio di pericolosità sociale, derivante dalla applicazione di una misura di sicurezza, ostativa alla permanenza del rapporto di impiego.

    1.3.– Ulteriore aspetto di irragionevolezza dell’automatismo censurato sarebbe desumibile dalla diversa gravità dell’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 rispetto alle altre ipotesi per le quali l’art. 12, comma 5, dello stesso decreto prevede la sanzione della rimozione, e cioè da un lato l’interdizione dai pubblici uffici in seguito a condanna penale, e dall’altro la condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore ad un anno, la cui esecuzione non sia stata sospesa ai sensi degli artt. 163 e 164 cod. pen., o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione condizionale ai sensi dell’art. 168 cod. pen. Entrambe tali ipotesi presuppongono infatti una condanna che accerta la commissione di reati, mentre le violazioni di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo citato non presentano necessariamente rilievo penale.

    1.4.– La disposizione censurata sarebbe, infine, irragionevole in quanto assoggetterebbe a trattamento deteriore l’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo citato rispetto ad altre ipotesi caratterizzate da maggior disvalore dal punto di vista deontologico. La Sezione rimettente richiama in particolare quella prevista dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo medesimo, riguardante l’uso della qualità di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti per sé o per altri, punita con la sanzione non inferiore alla censura, o alla perdita di anzianità se abituale e grave, ove viene in risalto uno sviamento della funzione di magistrato che non costituisce, invece, elemento...

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