Sentenza nº 194 da Constitutional Court (Italy), 08 Novembre 2018

RelatoreSilvana Sciarra
Data di Resoluzione08 Novembre 2018
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 194

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giorgio LATTANZI Presidente

- Aldo CAROSI Giudice

- Marta CARTABIA ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Franco MODUGNO ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giovanni AMOROSO ”

- Francesco VIGANÒ ”

- Luca ANTONINI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, nel procedimento vertente tra Francesca Santoro e Settimo senso s.r.l., con ordinanza del 26 luglio 2017, iscritta al n. 195 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione di Francesca Santoro, nonché gli atti di intervento della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Amos Andreoni per la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), Carlo de Marchis e Amos Andreoni per Francesca Santoro e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 26 luglio 2017 (reg. ord. n. 195 del 2017), il Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia) e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

    Va precisato che l’ordinanza di rimessione aveva indicato quali disposizioni censurate (in particolare, al secondo rigo del punto 2. e al secondo rigo del dispositivo), oltre all’art. 7, comma 1, lettera c), della legge n. 183 del 2014, gli «artt. 2, 4 e 10» del d.lgs. n. 23 del 2015. Su richiesta della ricorrente nel giudizio a quo, il giudice rimettente, con provvedimento del 2 agosto 2017, rilevato che l’ordinanza di rimessione «indica erroneamente sia a pag. 4 che a pag. 10 gli articoli del D.Lgs. n. 23/2015 sospettati di incostituzionalità, come si evince chiaramente dal resto della parte motiva dell’ordinanza, che invece li riporta con esattezza anche nel contenuto», ha disposto la correzione di questa «nel senso che, nella seconda riga del parg. 2 e nella seconda riga dopo il “P.Q.M.”, in luogo delle parole “artt. 2, 4 e 10” debbano intendersi scritte le parole “artt. 2, 3 e 4”». Il provvedimento di correzione di errore materiale è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 3 del 17 gennaio 2018, insieme con l’ordinanza di rimessione.

    Va altresì dato atto che, su richiesta della Cancelleria della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 7 del 14 febbraio 2018, è stato pubblicato il seguente avviso di rettifica, relativo all’ordinanza n. 195 del 2017: «Nell’ordinanza citata in epigrafe, emessa dal Tribunale di Roma, pubblicata nella sopraindicata Gazzetta Ufficiale, alla pag. 41 e seguenti, sia nel titolo che nel testo, il nome della parte nel giudizio a quo è Santoro Francesca anziché Santoro Federica».

    1.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto da Francesca Santoro avverso il licenziamento intimatole dalla Settimo senso s.r.l. il 15 dicembre 2015, dopo pochi mesi dall’assunzione, avvenuta l’11 maggio 2015; che tale licenziamento era basato sulla motivazione che, «a seguito di crescenti problematiche di carattere economico-produttivo che non ci consentono il regolare proseguimento del rapporto di lavoro, la Sua attività lavorativa non può più essere proficuamente utilizzata dall’azienda. Rilevato che non è possibile, all’interno dell’azienda, reperire un’altra posizione lavorativa per poterLa collocare, siamo costretti a licenziarLa per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604»; che la società convenuta è rimasta contumace.

    Il giudice a quo prende atto che quest’ultima, dichiarata contumace, non ha adempiuto l’onere di dimostrare la fondatezza della citata motivazione del licenziamento né ha contestato di possedere i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), implicitamente allegati dalla ricorrente con l’invocazione della tutela prevista dall’art. 3 (e non anche dall’art. 9) del d.lgs. n. 23 del 2015.

    Ciò premesso, il giudice a quo rappresenta che, poiché la lavoratrice ricorrente è stata assunta dopo il 6 marzo 2015, la tutela a essa applicabile è costituita dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 e, in particolare, dai citati comma 1 dell’art. 3 e comma unico dell’art. 4.

    Invece, per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015, la tutela avverso i licenziamenti illegittimi è quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), e, in particolare: dal settimo comma dell’art. 18, «per il caso di assenza del motivo oggettivo (definito come difetto di giustificazione, manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), che richiama il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravità del vizio»; dal sesto comma dell’art. 18, «per il caso di difetto di motivazione».

    Ciò esposto, il giudice a quo afferma di ritenere che, «a fronte della estrema genericità della motivazione addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia il più grave fra quelli indicati, vale a dire la “non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”».

    Lo stesso giudice osserva quindi che la lavoratrice ricorrente: se fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015, avrebbe usufruito, applicando il quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, della tutela reintegratoria e di un’indennità commisurata a dodici mensilità e, applicando il quinto comma dello stesso art. 18, della tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilità; poiché è stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a quattro mensilità, e solo in quanto la contumacia del convenuto consente di ritenere presuntivamente dimostrato il requisito dimensionale, altrimenti le mensilità risarcitorie sarebbero state due». Il rimettente soggiunge che, «[a]nche nel caso si ravvisasse un mero vizio della motivazione, la tutela nel vigore dell’art. 18 sarebbe stata molto più consistente (6-12 mensilità risarcitorie a fronte di 2)».

    1.2.– Con riguardo alla non manifesta infondatezza, il rimettente, prima di esporre più diffusamente le ragioni della violazione dei singoli parametri costituzionali invocati, afferma, in generale, che i censurati artt. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, «priva[no la] ricorrente di gran parte delle tutele tuttora vigenti per coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato prima del 7.3.2015» e «preclud[ono] qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» – in precedenza esercitabile, ancorché nel rispetto dei criteri previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 – «imponendo[gli] un automatismo in base al quale al lavoratore spetta, in caso di […] illegittimità del licenziamento, la piccola somma risarcitoria [da essi] prevista».

    Lo stesso rimettente anticipa che le successive considerazioni in tema di non manifesta infondatezza saranno incentrate sul contrasto delle disposizioni censurate con: l’art. 3 Cost., perché «l’importo» dell’indennità risarcitoria da esse prevista non ha «carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie» e perché la totale eliminazione della discrezionalità valutativa del giudice «finisce per...

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