Sentenza nº 43 da Constitutional Court (Italy), 02 Marzo 2018

RelatoreGiorgio Lattanzi
Data di Resoluzione02 Marzo 2018
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 43

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giorgio LATTANZI Presidente

- Aldo CAROSI Giudice

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

- Giovanni AMOROSO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Monza nel procedimento penale a carico di C. S., con ordinanza del 30 giugno 2016, iscritta al 236 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2018 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 30 giugno 2016 (r.o. n. 236 del 2016), il Tribunale ordinario di Monza ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), protocollo concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli».

    Il rimettente giudica un imputato del reato previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), per avere omesso di presentare la dichiarazione dell’anno 2008 relativa all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e all’imposta sul valore aggiunto (IVA), al fine di evadere tali imposte per un importo superiore alla soglia di punibilità.

    La medesima omissione costituisce illecito tributario ed è sanzionata in via amministrativa, ai sensi degli artt. 1, comma 1, e 5, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662). A tale titolo l’imputato è già stato destinatario di una sanzione amministrativa pari al 120 per cento di entrambe le imposte evase.

    La sanzione, conseguente a un avviso di accertamento del 20 febbraio 2003, è stata irrogata in via definitiva. Su quest’ultimo punto, il giudice a quo reputa ininfluente che non vi sia prova dell’avvenuto pagamento della sanzione, posto che il procedimento di riscossione è stato sospeso in base all’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000. Ciò che rileva, pertanto, è la sola definitività della sanzione, di cui il rimettente dà atto, rilevando che non sono stati esperiti ricorsi contro l’avviso di accertamento.

    Attraverso un’accurata ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con specifico riferimento alle «sovrattasse tributarie», il rimettente conclude che la sanzione amministrativa tributaria inflitta in via definitiva all’imputato ha natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, e che l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione vieta di procedere nuovamente per il medesimo fatto e nei confronti della stessa persona.

    Né, aggiunge il rimettente, sulla base della concezione di idem factum accolta dalla consolidata giurisprudenza europea, può dubitarsi che il fatto sia il medesimo, e tuttavia l’ordinamento giuridico italiano non permetterebbe di far valere tale divieto.

    Gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000 prevengono, «sul piano sostanziale, la duplicazione delle sanzioni», ma non impediscono, né hanno impedito nel caso di specie, l’avvio del procedimento penale pur dopo che la sanzione tributaria amministrativa è divenuta definitiva. L’art. 19 del d.lgs. n. 74 del 2000 infatti stabilisce che quando il medesimo fatto è punito, in quanto reato, ai sensi del Titolo II del d.lgs. n. 74 del 2000, e allo stesso tempo, in quanto illecito amministrativo, deve essere applicata la sola disposizione speciale, che, nel caso oggetto del processo principale, è quella penale. Però questa regola, in base all’art. 21 del d.lgs. n. 74 del 2000, non impedisce che il procedimento amministrativo finalizzato all’applicazione della sanzione e il processo tributario siano avviati e se del caso conclusi, posto che la legge esclude che essi siano sospesi a causa della pendenza del procedimento penale (cosiddetto sistema del doppio binario).

    La sanzione amministrativa, anzi, è applicata in ogni caso, ma non può essere eseguita, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione, o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con una formula che esclude la rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000).

    In tal modo, osserva ancora il rimettente, si offre un rimedio per «scongiurare il rischio di duplicazione delle sanzioni al medesimo soggetto per l’identico fatto», ma si postula, sul piano processuale, che il giudizio penale debba essere celebrato nonostante la definitività della sanzione amministrativa già inflitta, benché sospesa nell’esecuzione.

    Questa situazione è reputata dal rimettente in contrasto con il divieto di bis in idem enunciato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU; tuttavia, non vi sarebbe modo di far valere una simile regola nell’ordinamento, perché l’art. 649 cod. proc. pen., enunciando il divieto di un secondo giudizio penale per il medesimo fatto, opera solo se l’imputato è stato già giudicato con «sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili», ovvero presuppone la formazione di un giudicato penale.

    Il rimettente esclude di poter superare la previsione letterale della disposizione con un’interpretazione costituzionalmente orientata, né reputa che l’art. 649 cod. proc. pen. possa essere applicato in via analogica.

    Per tale ragione il Tribunale di Monza solleva l’odierna questione di legittimità costituzionale.

    Pur consapevole che l’accoglimento di essa comporterebbe la rinuncia alla sanzione penale laddove, come accade di regola, sia divenuta definitiva in precedenza la sanzione amministrativa, il giudice a quo considera che si tratti dell’unica soluzione possibile per evitare la violazione del divieto di bis in idem e per consentire conseguentemente che il giudizio penale sia definito con sentenza di non luogo a procedere.

  2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, o, in via subordinata, che gli atti siano restituiti al giudice a quo.

    L’eccezione di inammissibilità si basa sul fatto che, agli atti, non vi è prova dell’avvenuto pagamento della...

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