Sentenza nº 241 da Constitutional Court (Italy), 20 Novembre 2017

RelatoreGiulio Prosperetti
Data di Resoluzione20 Novembre 2017
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 241

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo GROSSI Presidente

- Giorgio LATTANZI Giudice

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento vertente tra l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e M. L., nella qualità di genitore del minore M. D. D. A., con ordinanza del 6 marzo 2015, iscritta al n. 203 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2017 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;

uditi l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 6 marzo 2015 la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, che, nei giudizi per prestazioni previdenziali, sanziona, con l’inammissibilità del ricorso, l’omessa indicazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, il cui importo deve essere specificato nelle conclusioni dell’atto introduttivo.

  2. – Il giudice rimettente premette che è stato sottoposto al suo esame l’appello, proposto dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), avverso la decisione di primo grado con cui il Tribunale di Torino ha riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità dell’ascendente in favore del nipote, ancorché i genitori non fossero totalmente privi di reddito.

    In particolare, il giudice a quo espone che la decisione è stata assunta nell’ambito di un giudizio proposto dalla madre per la condanna dell’INPS al ripristino della reversibilità, in favore del figlio, del trattamento pensionistico spettante al nonno materno che, in vita, aveva provveduto al mantenimento del nipote con lui convivente, nonché per la declaratoria di illegittimità della contestuale richiesta di ripetizione di indebito, formulata dal medesimo ente, avente ad oggetto i ratei di pensione erogati dal 1° settembre 2009 al 30 giugno 2012, pari ad euro 31.232,77.

  3. – Avverso tale decisione, prosegue il rimettente, ha proposto appello l’INPS, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso di primo grado per mancato rispetto della previsione di cui all’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., che, a pena di inammissibilità, prescrive di indicare nell’atto introduttivo del giudizio il valore della prestazione richiesta.

    Su tale eccezione si è soffermato il Collegio rimettente che dubita della compatibilità costituzionale dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ. per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), poiché la sanzione dell’inammissibilità del ricorso costituirebbe una reazione sproporzionata ed irragionevole, rispetto all’obiettivo avuto di mira dal legislatore, di evitare, nei giudizi per prestazioni previdenziali, le liquidazioni di spese processuali esorbitanti rispetto al valore della controversia.

    In particolare, la Corte d’appello osserva che l’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., vincola il giudice ad una liquidazione delle spese di lite non superiore al valore del capitale ed è a tale fine che si impone alla parte di rendere la dichiarazione relativa al valore della prestazione. La sanzione dell’inammissibilità, comminabile in caso di inadempimento a tale obbligo, determinerebbe il venir meno della potestas iudicandi del giudice, rilevabile, d’ufficio o su eccezione di parte, in ogni stato e grado del procedimento, tuttavia la gravità della sanzione la renderebbe manifestamente irragionevole in relazione allo scopo perseguito. La manifesta irragionevolezza della previsione censurata, prosegue il rimettente, sarebbe resa ancor più evidente in casi, come quelli del giudizio a quo, in cui la liquidazione delle spese sia avvenuta correttamente.

    Tale correttezza sarebbe desumibile dall’assenza di uno specifico motivo di gravame relativo al capo della sentenza di liquidazione delle spese; tuttavia, una volta verificata la violazione dell’obbligo di legge, sarebbe precluso al giudice valutare l’incidenza dell’omissione iniziale rispetto al fine dichiarato dalla legge, a nulla rilevando che il limite legale alla liquidazione giudiziale sia stato rispettato in concreto.

  4. – Il rigore letterale della norma, secondo la Corte...

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