Sentenza nº 268 da Constitutional Court (Italy), 15 Dicembre 2016
Relatore | Marta Cartabia |
Data di Resoluzione | 15 Dicembre 2016 |
Emittente | Constitutional Court (Italy) |
SENTENZA N. 268
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
-Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3, e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con ordinanza del 26 giugno 2015 e dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania con ordinanza del 5 novembre 2015 iscritte, rispettivamente, al n. 246 del registro ordinanze 2015 e al n. 78 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di costituzione di D. M. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato Marco Zambelli per D.M. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
-
– Con ordinanza del 26 giugno 2015, iscritta al r.o. n. 246 del 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3, e 923 (recte: 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).
Le norme impugnate prevedono che: «La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all’articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale» (art. 866, comma 1); «se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza» (art. 867, comma 3); «1. Il rapporto di impiego del militare cessa per una delle seguenti cause: [omissis] i) perdita del grado» (art. 923, comma 1).
Il giudice a quo dubita che il combinato disposto delle citate disposizioni violi l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore, in quanto sproporzionata, sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, in quanto riserva un identico trattamento a situazioni strutturalmente diverse, equiparando gli effetti dell’interdizione perpetua a quelli dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
1.1.– In particolare, il rimettente ha precisato di essere investito del ricorso proposto da D.M. per l’annullamento del decreto del Direttore della III Divisione della Direzione Generale per il personale militare del Ministero della Difesa, con il quale è stata disposta, ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, la perdita del grado e la contestuale cessazione del rapporto d’impiego del militare.
Il provvedimento è stato emesso dall’amministrazione in quanto divenuta definitiva la condanna di D.M. a due anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, con contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta, costituendo la perdita del grado e la cessazione del rapporto d’impiego effetto automatico dell’applicazione in sede penale della predetta pena accessoria.
1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente ha osservato come soltanto l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale, sollevata sui citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, consentirebbe al Tribunale di annullare il provvedimento impugnato, che si basa sull’applicazione delle predette disposizioni ed è immune da ulteriori vizi formali e sostanziali.
Al riguardo viene altresì precisato che, conformemente al consolidato orientamento del Consiglio di Stato, la perdita di grado e la cessazione del rapporto d’impiego costituiscono effetto indiretto delle pene accessorie applicate in sede penale, con la conseguenza che deve applicarsi la disciplina vigente al momento dell’emanazione del provvedimento ablativo (cioè i citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923), non quella vigente al momento della commissione dei fatti di reato (artt. 12, lettera f e 34, numero 7, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, recante «Norme sullo stato giuridici dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri»).
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ha osservato quanto segue.
1.3.1.– Il rimettente ritiene, in primo luogo, che le norme impugnate violino l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, richiamando la giurisprudenza costituzionale secondo cui è illegittima la destituzione dal rapporto di impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare (vengono citate le sentenze n. 971 del 1988, n. 40 del 1990, n. 415, n. 104 e n. 16 del 1991, n. 134 del 1992, n. 197 del 1993 e n. 363 del 1996).
Più precisamente il giudice a quo considera estensibili al caso di specie i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, numero 7, della l. n. 1168 del 1961, secondo cui alla pena accessoria della rimozione conseguiva l’automatica cessazione del rapporto d’impiego.
La circostanza che in quel caso la cessazione del rapporto d’impiego conseguisse alla pena accessoria militare della rimozione, e non alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dei pubblici uffici, non viene infatti ritenuta tale da poter discriminare le due fattispecie. Si osserva che, in entrambi i casi, la perdita del grado con cessazione del rapporto consegue a sanzioni penali accessorie (la prima a reato militare e la seconda a reato comune) in modo automatico, in conseguenza della definitività della sentenza che le applica. A maggior ragione, poi, dovrebbe riconoscersi l’irragionevolezza dell’attuale disciplina in quanto la rimozione è perpetua, mentre l’interdizione temporanea è per definizione non definitiva.
In questo modo, prosegue il rimettente, si colpiscono, senza possibilità di alcuna distinzione, la molteplicità dei comportamenti possibili nell’area degli illeciti penali cui consegue l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, pregiudicando il principio di proporzione tra misure e fatti concreti cui conseguono.
1.3.2.– Il giudice a quo ritiene che l’art. 3 Cost. sia violato anche sotto il profilo del necessario rispetto del principio di uguaglianza, perché equipara, ai fini della perdita del grado con cessazione del rapporto d’impiego, gli effetti dell’interdizione perpetua a quelli dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici: mentre la prima pregiudica in radice qualsiasi ripresa del rapporto, la seconda è per definizione provvisoria, di tal che si riserva un medesimo trattamento a situazioni strutturalmente dissimili.
Secondo il rimettente, tale valutazione non cambia anche se rapportata alla più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, in quanto l’estinzione del rapporto di lavoro e di impiego del dipendente di pubbliche amministrazioni ed enti pubblici consegue soltanto, ai sensi dell’art. 32-quinquies cod. pen., alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni e unicamente per determinati reati contro la pubblica amministrazione, mentre lo stesso automatismo è previsto per la perdita del grado anche in caso di condanne inferiori a tre anni e per la generalità dei reati.
-
– Con memoria depositata il 22 ottobre 2015, si è costituito D.M. e, insistendo per l’accoglimento delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, ha sottolineato che l’ordinanza di rimessione ha colmato le lacune motivazionali che avevano indotto la Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 276 del 2013, analoga questione sollevata in precedenza con ordinanza di altro Tribunale.
In particolare, ad avviso della parte privata, l’attuale ordinanza di rimessione ricostruisce con completezza il quadro normativo, esplicita le ragioni per le quali le ragioni di illegittimità, valide in generale per il pubblico impiego, si estendano anche agli appartenenti ai ruoli dell’Arma dei carabinieri, e tiene adeguatamente conto della più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, dettagliatamente illustrando le condivisibili ragioni per le quali le disposizioni impugnate debbano ritenersi violare l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, sia sotto quello del principio di uguaglianza.
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– Con atto depositato il...
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