Sentenza nº 140 da Constitutional Court (Italy), 09 Luglio 2015

RelatorePaolo Grossi
Data di Resoluzione09 Luglio 2015
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 140

ANNO 2015

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Marta CARTABIA Presidente

- Giuseppe FRIGO Giudice

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis e 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 ottobre 2013, n. 112, promossi dalle Regioni Veneto e Campania con ricorsi entrambi notificati il 9 dicembre 2013, e depositati in cancelleria il 17 e il 18 dicembre 2013, rispettivamente iscritti ai nn. 101 e 102 del registro ricorsi 2013; nonché degli artt. 4 e 16, commi 5 e 6, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 (Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 luglio 2014, n. 106, promossi dalle Regioni Veneto e Campania, con ricorsi notificati il 29 settembre 2014 e il 29 settembre-6 ottobre 2014, depositati in cancelleria il 7 ed il 9 ottobre 2014, rispettivamente iscritti ai nn. 72 e 73 del registro ricorsi 2014.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 giugno 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi gli avvocati Luigi Manzi, Ezio Zanon e Daniela Palumbo per la Regione Veneto, Almerina Bove per la Regione Campania e gli avvocati dello Stato Ettore Figliolia, Maria Gabriella Mangia e Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. − Con ricorso notificato il 9 dicembre 2013 e depositato il successivo 17 dicembre (iscritto nel registro ricorsi del 2013 al n. 101), la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha proposto questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), introdotto dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112. La norma censurata – che aggiunge il comma 1-bis al comma 1 dell’art. 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) – prevede che le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le Sovrintendenze, sentiti gli enti locali, adottino apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione delle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, quali le attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con tali esigenze.

    La Regione Veneto osserva, innanzitutto, che la formulazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004, come modificato dal d.l. n. 91 del 2013 nel testo convertito in legge, presenta un doppio comma 1-bis, il primo dei quali introdotto dall’art. 2-bis della medesima legge di conversione ed il secondo dalla norma censurata. Orbene, per la ricorrente, l’armonia legislativa dei commi 1 e 1-bis del citato art. 52 (che attribuisce ai Comuni la competenza di individuare le aree pubbliche nelle quali imporre il divieto o limitazioni all’esercizio del commercio, per preminenti ragioni di tutela di beni o siti di valenza archeologica, storica, artistica e paesaggistica; nonché i locali da destinare ad attività di artigianato tradizionale ed altre attività commerciali tradizionali, con finalità tutt’altro che impeditive, ma anzi promozionali) risulta «completamente stravolta» dalla norma censurata, che appunto, introduce un ulteriore comma 1-bis nell’art. 52 di contenuto diametralmente opposto a quello immediatamente precedente, assegnando una funzione di amministrazione attiva alle Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici ed alle Sovrintendenze, relegando contestualmente i Comuni in un ruolo di interlocutore con funzioni consultive obbligatorie ma non vincolanti.

    Ripercorso, analiticamente, l’excursus normativo che ha regolato la ripartizione delle diverse competenze tra Comuni ed organi statali in subiecta materia – con specifico riferimento a quanto disposto dagli artt. 10 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), 53 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), e 52 del citato d.lgs. n. 42 del 2004; nonché dalle direttive emanate dal Ministero per i beni e le attività culturali, in data 9 novembre 2007 (Esercizio del commercio in aree di valore culturale di cui all’articolo 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) e 10 ottobre 2012 (Esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale), il contenuto della quale ultima è stato trasfuso nel censurato art. 4-bis – la ricorrente osserva come proprio l’impugnato intervento legislativo, «disgiunto dal necessario, conseguente, riordino ordinamentale ed istituzionale», abbia «creato un affastellamento normativo, fonte di grave incertezza giuridica, precludendo, altresì, il ricorso a quei meccanismi di collaborazione e concertazione posti a presidio della regolazione di ambiti connotati da un rilevante intreccio di una pluralità di interessi pubblici».

    Da ciò essa desume, in primo luogo, che la disposizione lede il canone di ragionevolezza, che travalica il mero vizio di tecnica legislativa, incidendo sul corretto esercizio della potestà legislativa regionale che, specialmente in contesti di potestà normativa residuale, quale certamente è quello relativo al commercio, subisce restrizioni così rilevanti da risultarne svuotata. In secondo luogo – poiché la disposizione stessa non offre neppure canoni e parametri omogenei che consentano alle Direzioni regionali per i beni culturali ed alle Sovrintendenze l’esercizio uniforme del potere discrezionale di cui si ritrovano ad essere tributari – la ricorrente ne denuncia il contrasto con l’art. 97 della Costituzione.

    Nel merito, la Regione osserva che la finalità espressa della norma (nel cui incipit è enunciato il proposito di «contrastare l’esercizio […] delle attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile», allo scopo dichiarato di «assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale […] nonché delle aree a essi contermini») più che ad esigenze di tutela del patrimonio culturale riservata allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sembrerebbe piuttosto riconducibile alla «valorizzazione dei beni culturali» di cui al successivo comma terzo (conformemente ai criteri distintivi enucleati da questa Corte nelle sentenze n. 212 del 2006 e n. 9 del 2004, secondo cui la valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione e con riferimento ai modi di questa).

    Evidenziato come il fulcro della questione consista non tanto nell’apposizione di vincoli all’esercizio di determinate attività, quanto piuttosto nell’individuazione dei soggetti istituzionali a ciò competenti, la Regione osserva che – quanto ai limiti apponibili all’esercizio del commercio, al fine appunto di garantire le esigenze di valorizzazione e migliore fruibilità del patrimonio culturale, nel rispetto del principio della libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost. – la relativa potestà regolamentare spetta alla amministrazione comunale (ex art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali»), cui si aggiunge una potestà legislativa regionale residuale (ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.), come riconosciuto con la sentenza n. 247 del 2010, con riferimento alla legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa − collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo). Viceversa, per effetto della censurata novella statale, la portata precettiva delle disposizioni regionali, che avessero trovato puntuale attuazione nelle conseguenti e consequenziali determinazioni comunali, potrebbe subire un’inammissibile compromissione a seguito di un atto provvedimentale emanato dal sovrintendente nell’esercizio di potestà amministrative, connotate da un’estensione tale da travolgere qualsiasi competenza costituzionalmente garantita, sino a rasentare l’arbitrio.

    La Regione dunque sottolinea che lodierno ricorso è diretto a sollecitare una pronuncia della Corte, che chiarisca la reale portata legislativa della disposizione impugnata, restituendo certezza giuridica agli operatori economici del settore e ricomponendo in termini di coerenza quello che attualmente è un insieme frammentario e non coordinato di una pluralità di competenze soggettivamente ed oggettivamente simultaneamente interferenti, secondo un «modello di rovesciamento prospettico che emargina le amministrazioni comunali ad un ruolo meramente valutativo, e neppure vincolante, con riverberi decisivi sulla...

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