Sentenza nº 1 da Constitutional Court (Italy), 15 Gennaio 2013

RelatoreGaetano Silvestri e Giuseppe Frigo
Data di Resoluzione15 Gennaio 2013
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 1

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Alfonso QUARANTA Presidente

- Franco GALLO Giudice

- Luigi MAZZELLA ”

- Gaetano SILVESTRI ”

- Sabino CASSESE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Sergio MATTARELLA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’attività di intercettazione telefonica svolta nell’ambito di un procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, effettuata su utenza di altra persona, nel corso della quale sono state captate conversazioni del Presidente della Repubblica, promosso dal Presidente della Repubblica, con ricorso notificato il 24 settembre 2012, depositato in cancelleria il 26 settembre 2012 ed iscritto al n. 4 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2012, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo;

uditi nell’udienza pubblica del 4 dicembre 2012 i Giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo;

uditi gli avvocati dello Stato Michele Giuseppe Dipace, Gabriella Palmieri e Antonio Palatiello per il Presidente della Repubblica e gli avvocati Giovanni Serges, Mario Serio e Alessandro Pace per il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ricorso depositato il 30 luglio 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, «per violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione» – in particolare, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), «anche con riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» – nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in relazione all’attività di intercettazione telefonica, svolta riguardo alle utenze di persona diversa nell’ambito di un procedimento penale pendente a Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni intrattenute dallo stesso Presidente della Repubblica.

    1.1.– Il ricorrente riferisce che, con nota del 27 giugno 2012, l’Avvocato generale dello Stato, su mandato del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, aveva chiesto al dott. Francesco Messineo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, «una conferma o una smentita» di quanto risultava dalle dichiarazioni rese dal sostituto Procuratore Antonino Di Matteo nel corso di un’intervista pubblicata dal quotidiano «La Repubblica» del 22 giugno 2012: che erano state intercettate, cioè, conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, considerate allo stato irrilevanti, ma che la Procura si sarebbe riservata di utilizzare.

    Con nota del 6 luglio 2012, il Procuratore della Repubblica – allegando la missiva del giorno precedente, con la quale il dott. Di Matteo aveva rappresentato che, in risposta ad una domanda «assolutamente generica» dell’intervistatore sulla sorte delle intercettazioni effettuate, egli si era limitato «all’ovvio richiamo alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attività di intercettazione telefonica» – aveva comunicato che la Procura di Palermo, «avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede[va] alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge».

    Con successiva nota, diffusa il 9 luglio 2012, e con lettera pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» l’11 luglio 2012, il dott. Messineo aveva ulteriormente affermato che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione». Si aggiungeva dal Procuratore che, «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti. Ciò è quanto prevedono le più elementari norme dell’ordinamento […]».

    1.2.– Ad avviso del ricorrente, la tesi del Procuratore della Repubblica non sarebbe condivisibile, in quanto, alla luce dell’art. 90 Cost. e dell’art. 7 della legge n. 219 del 1989 – salvi i casi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione e con l’applicazione del regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento d’accusa – le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché «indirette» od «occasionali», dovrebbero ritenersi assolutamente vietate. Di conseguenza, esse non potrebbero essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte, dovendo il pubblico ministero chiederne al giudice l’immediata distruzione.

    L’art. 90 Cost. stabilisce, infatti, che «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione», aggiungendo che «in tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei propri membri». L’immunità in tal modo accordata al Presidente non consisterebbe solo in una irresponsabilità giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili eventualmente derivanti dagli atti tipici compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, ma anche in una irresponsabilità politica, diretta a garantire la piena libertà e la sicurezza di tutte le modalità di esercizio delle attribuzioni presidenziali. Lungi dal costituire un «inammissibile privilegio», legato ad esperienze ormai definitivamente superate e tale da incrinare il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’immunità in questione risulterebbe strumentale all’espletamento degli altissimi compiti che la Costituzione demanda al Presidente della Repubblica, nella sua veste di Capo dello Stato e di rappresentante dell’unità nazionale, intesi ad assicurare in modo imparziale, insieme agli altri organi di garanzia, il corretto funzionamento del sistema istituzionale e la tutela degli interessi permanenti della Nazione. La previsione dell’art. 90 Cost. rappresenterebbe, in questa prospettiva, anche un limite alle attribuzioni degli altri poteri dello Stato, le quali, ove non correttamente esercitate, menomerebbero le prerogative presidenziali.

    Sarebbe, in pari tempo, del tutto evidente come, nello svolgimento dei predetti compiti, debba essere garantito al Presidente della Repubblica «il massimo di libertà di azione e di riservatezza», anche perché alcune delle attività che egli pone in essere nel perseguimento delle finalità istituzionali – e di non poco significato – «non hanno un carattere formalizzato».

    La conseguente impossibilità che vengano posti limiti alla libertà di comunicazione del Capo dello Stato, anche da parte di altra autorità, risulterebbe confermata dall’interpretazione sistematica delle norme di legge ordinaria che, in attuazione dei principi costituzionali, disciplinano la posizione del Presidente. L’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 – disposizione che, in quanto contenuta in una fonte legislativa dichiaratamente volta ad attuare l’art. 90 Cost., assumerebbe un «ruolo integrativo» della norma costituzionale – vieta infatti, in modo assoluto, di disporre l’intercettazione di conversazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione nei confronti del Presidente della Repubblica, se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica. Il divieto è sancito con riferimento ai reati per i quali, in base all’art. 90 Cost., il Presidente può essere messo in stato di accusa (alto tradimento e attentato alla Costituzione). Ma se, in questi casi, vi è un divieto assoluto di intercettazione «diretta» fin quando il Presidente è in carica, sarebbe «naturale» che sussista un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare e, se del caso, di utilizzare le comunicazioni presidenziali anche qualora captate in modo indiretto o casuale, trattandosi di attività egualmente idonea a ledere la sua sfera di immunità.

    Sarebbe poi altrettanto evidente che il divieto assoluto di ricorso al controllo delle comunicazioni telefoniche, enunciato in rapporto ai reati presidenziali, debba estendersi, nel silenzio della legge, ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente. A maggior ragione dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di sue conversazioni intercettate occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati addebitabili a terzi, come è avvenuto nel caso in esame.

    1.3.– In conclusione, il divieto di intercettazione riguarderebbe anche le cosiddette intercettazioni «indirette» o «casuali» effettuate mentre il Presidente della Repubblica è in carica: con l’immediata conseguenza che i risultati delle captazioni eventualmente intervenute non potrebbero essere comunque utilizzati, dovendo la relativa documentazione essere immediatamente distrutta in applicazione dell’art. 271 cod. proc. pen. Varrebbero infatti a fortiori, per il Capo dello Stato, le tutele...

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