Ordinanza dell'8 novembre 2007 emessa dal Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di De Nisi Vincenzo Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace - Preclusione - Violazione d...

LA CORTE DI CASSAZIONE

Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Benevento nei confronti di De Nisi Vincenzo, nato a San Leucio del Sannio il 30 ottobre 1952 avverso la sentenza del Giudice di pace di Benevento in data 4 maggio 2006.

Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal consigliere Piercamillo Davigo.

Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, dott. Giuseppe Febbraro il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

Udito il difensore che ha concluso per raccoglimento del ricorso, osserva.

Motivi della decisione

Con sentenza del 4 maggio 2006, il Giudice di pace di Benevento assolse De Nisi Vincenzo dal reato di cui all'art. 638 cod. pen. perche' il fatto non sussiste, peraltro sull'assunto che non era provata la sussistenza in capo all'imputato dell'elemento soggettivo del reato (identificato con la coscienza e volonta) in quanto l'incidente in cui fu ucciso il cane di proprieta' della parte civile Russo Lucia avrebbe potuto dipendere da uno sbandamento dell'autovettura condotta dall'imputato. Il primo giudice rilevava altresi' che i testi dell'accusa e della parte civile si erano contraddetti (tanto che fu disposta la trasmissione degli atti al p.m. per l'ipotesi di falsa testimonianza) e che l'imputato aveva provato che al momento dell'incidente si trovava in altro luogo a fungere da autista alla moglie.

Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Benevento (su sollecitazione della parte civile) deducendo violazione della legge penale e vizio di motivazione in quanto la motivazione della sentenza impugnata e' in contrasto con la formula adottata nel dispositivo e si fonda su una premessa, lo sbandamento dell'auto, di cui non vi sarebbe traccia in atti, pur dando atto che i fatti si erano svolti come esposto dalla parte civile, ma contestualmente valutando come contraddittorie le testimonianze dei testimoni indicati dall'accusa e dalla parte civile. Ancora la sentenza impugnata, pur affermando che l'imputato avrebbe provato di essere stato altrove al momento dell'incidente, non considera che il teste Castaldo Giancarlo (sulla cui deposizione si fonderebbe l'affermazione) aveva affermato di non avere specifici ricordi per il giorno dell'incidente.

Il ricorso dovrebbe essere convertito in appello se non vi ostasse una disposizione di legge che questa Corte sospetta essere costituzionalmente illegittima (come del resto ha ritenuto il Tribunale di Tempio Pausania che ha sollevato la relativa questione con ordinanza in data 11 aprile 2006 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 1 del 3 gennaio 2007).

Si deve infatti rilevare che il ricorso e' stato proposto in data 12 giugno 2006, vale a dire dopo la modifica dell'art. 36 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ad opera dell'art. 9, comma 2, legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha soppresso la possibilita' per il pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pene alternative qual e' appunto quello di cui all'art. 638 cod. pen.

Occorre anche ricordare che la Corte costituzionale, con sentenza n. 26 del 24 gennaio 2007, depositata il 6 febbraio 2007, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, "nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova e' decisiva", nonche' dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46/2006, "nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge e' dichiarato inammissibile".

Le ragioni poste a base della pronunzia della Corte costituzionale appaiono applicabili anche all'art. 36 d.lgs. n. 274/2000 citato.

Infatti la Corte costituzionale, nella sentenza sopra indicata n. 26/2007, ha cosi' motivato:

"4. - In riferimento all'art. 111, secondo comma, Cost., la questione e' fondata.

Giova premettere come, secondo quanto reiteratamente rilevato da questa Corte, il secondo comma dell'art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione) - nello stabilire che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita' - abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parita' delle parti, "pacificamente gia' insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali" (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).

Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto pienamente valida l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992) - secondo la quale, nel processo penale, il principio di parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato: potendo una disparita' di trattamento "risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia" (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).

Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlato alle diverse condizioni di operativita' e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici - essendo l'una un organo pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l'altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di liberta' personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna impediscono di ritenere che il principio di parita' debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facolta'.

Alterazioni di tale simmetria - tanto nell'una che nell'altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) - sono invece compatibili con il principio di parita', ad una duplice condizione: e, cioe', che esse, per un verso, trovino un'adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparita' di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s'innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) entro i limiti della ragionevolezza.

Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparita' e l'ampiezza dello "scalino" da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l'adeguatezza della ratio e la...

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