Ordinanza emessa il 30 marzo 2006 dalla Corte di assise d'appello di Caltanissetta nel procedimento penale a carico di Giunta Vincenzo ed altro Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione - Inammissibilita' dell'appello proposto p...

LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO

Sentite le parti ed esaminati gli atti, alla pubblica udienza del 30 marzo 2006 ha pronunciato, dandone lettura alle parti, le seguente ordinanza.

Giunta Vincenzo, Varelli Sebastiano e Savoca Mario erano imputati in concorso tra loro e con Vinciguerra Maurizio e Leonardo Angelo, questi ultimi separatamente giudicati, dell'omicidio premeditato di Minacapilli Giovanni, ucciso in Aidone il 24 gennaio 1998 da due killer che esplodevano al suo indirizzo numerosi colpi di pistola cal. 22 e cal. 7,65, attingendolo in varie parti del corpo.

Varelli e Giunta erano indicati come mandanti del delitto. Savoca, Leonardo e Vinciguerra esecutori materiali.

A tutti erano contestate aggravanti del numero delle persone concorrenti; quella di cui all'art. 7, legge n. 203/1991, per avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p., essendo il delitto maturato nell'ambito di una contrapposizione tra gruppi rivali, eranti nell'ambito della cellula ennese di Cosa nostra.

A Giunta Varelli e Savoca era pure contestato la detenzione ed il porto delle armi utilizzate per il delitto; il delitto aggravato di lesioni gravi nei confronti di Di Franco Orazio, ferito involontariamente in modo grave dal complice, per errore nell'esecuzione dell'omicidio nei confronti del Minacapilli.

Di Maira Salvatore era invece imputato di favoreggiamento del Savoca.

Il giudizio, celebrato con rito abbreviato, era definito all'udienza dell'8 aprile 2005.

Il giudice assolveva Giunta e Vareili dai reati ascritti per non avere commesso i fatti. Condanna invece Savoca e Di Maira alle pene di giustizia.

Contro l'assoluzione di Varelli e Giunta presentavano appello il Procuratore generale ed il Procuratore della Repubblica. Quest'ultimo impugnava pure nei confronti di Savoca che sua volta proponeva appello.

Anche Di Maira impugnava la sentenza chiedendo l'assoluzione.

All'udienza del 21 marzo 2006 le posizioni di Savoca e Di Maira erano separate e immediatamente definite con concordato sui motivi di appello per il primo e ai sensi dell'art. 129 c.p.p. per il secondo.

Il 24 gennaio 1998 poco dopo le 20 in Aidone nella via Tenente Cuciuffo, Giovanni Minacapilli veniva colpito da numerosi colpi di pistola calibro 7,65 e 22. L'uomo in fin di vita era ricoverato nell'ospedale di Piazza Armerina, dove riusciva a parlare con i carabinieri senza riuscire a dare pero' utili indicazioni per individuare chi gli aveva sparato.

Il Minacapilli cessava di vivere alle ore 11,20 del 25 gennaio 1998.

Contestualmente all'uccisione di Minacapilli si verificava la scomparsa di Di Franco Orazio, compartecipe del delitto.

All'accusa nei confronti degli imputati si perveniva a seguito di indagini che permettevano di individuare in Vinciguerra Maurizio e Leopardi Angelo, figlio del noto boss mafioso ennese Leonardo Gaetano, due degli autori del delitto.

Sulla base delle indagini relativi ai movimenti degli indiziati e delle contraddizioni emerse dagli interrogatori di tutti costoro, Leonardo e Vinciguerra venivano arrestati, processati e condannati per l'omicidio del Di Franco (soppresso dai complici perche' rimasto ferito nell'azione) mentre venivano assolti dall'omicidio Minacapilli.

Nel corso del giudizio di appello Leonardo Angelo iniziava a collaborare con la giustizia; confessava la partecipazione ad entrambi i delitti (per il Di Franco si era trattato di un caso di aberratio ictus), rivelando le responsabilita' di altri soggetti.

Vinciguerra, latitante in Marocco, veniva arrestato ed estradato. All'arrivo in Italia decideva anch'egli di collaborare con la giustizia.

Sulla base delle prove fornite dai collaboratori e delle risultanze probatorie di altri procedimenti paralleli connessi e collegati, definiti con sentenze irrevocabili, in particolare il procedimento per il processo c.d. Piazza Pulita, era possibile definire il contesto nel quale era maturato il delitto.

Il g.u.p. affermava che l'omicidio Minacapilli doveva essere inquadrato in un contesto di guerra di mafia tra due fazioni della cosca mafiosa ennese, aderenti a Cosa nostra, facenti capo in ambito provinciale da un lato a Privitelli Gaetano e Mattiolo Giovanni e dall'altro a Varelli Sebastiano e Selvaggio Alessandro.

Mililli Giuseppe e Minacapilli Giovanni attivi nel settore delle estorsioni nell'intera provincia ennese, facevano capo al Mattiolo.

Il contrasto tra i due gruppi emergeva anche dalle intercettazioni ambientali, eseguite su un'autovettura nella quale tali Abate e Lo Bartolo della famiglia di Piazza Armerina discutevano apertamente della soppressione degli avversari, chiamando in causa il Varelli come esponente della fazione alla quale essi appartenevano.

Nelle conversazioni intercettate erano espliciti i riferimenti alla soppressione fisica di Mililli e Minacapilli, per la loro ingerenza nell'attivita' estorsiva gestita dal gruppo Lo Bartolo-Abate-Varelli, e alla necessita' di fare presto per prevenire un imminente attacco degli avversari. Le intercettazioni erano avvenute prima del delitto, nella primavera-estate del 1997.

Su tali premesse il giudice passava ad esporre le dichiarazioni di Angelo Leonardo e di Maurizio Vinciguerra, esecutori materiali rei confessi e chiamanti in correita' quali mandanti nei confronti di Varelli e Giunta.

Entrambi con le loro dichiarazioni avevano tradotto in prove dirette quelle che fino a quel momento erano state ricostruzioni indiziarie degli avvenimenti.

Ciononostante il giudice assolveva gli imputati, ravvisando nelle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia tre fondamentali punti di contrasto attinenti l'individuazione dei mandanti del delitto.

Il giudice ricorda come in sede di indagini il p.m. avesse effettuato un confronto tra i due collaboratori, in esito al quale le divergenze tra i due si erano appianate, riuscendosi, al di la' delle parzialmente contrastanti iniziali versioni, a trovare una sostanziale convergenza nei rispettivi racconti.

Le dichiarazioni dei collaboratori inducevano il giudice a condannare il Savoca come autore del delitto ma le riteneva insufficienti per l'affermazione di responsabilita' del Varelli e del Giunta.

Il Procuratore della Repubblica, in particolare, censurava la sentenza per illogicita' (contrasto tra premesse e conclusioni) ed errore nelle stesse premesse in fatto. Criticava il metodo ed il merito della valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

La censura concerneva quindi tanto il travisamento del fatto, quanto il travisamento delle prove, che in generale l'illogicita' e l'inadeguatezza della complessiva ricomposizione dei risultati dell'ampio materiale probatorio disponibile.

Gli appellanti criticavano la sentenza per avere ritenuto che la convergenza tra le dichiarazioni dei collaboratori, verificatasi dopo il confronto tra gli stessi, non desse garanzie di affidabilita'.

All'udienza fissata per la discussione degli appelli del pubblico ministero, dopo la stralcio delle altre posizioni, i difensori degli imputati ed il Procuratore generale chiedevano che la fase processuale d'appello fosse immediatamente definita con pronuncia di ordinanza di inammissibilita' dell'impugnazione, a norma degli art. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006 n. 46 nel frattempo entrata in vigore, applicabile ai processi in corso.

In base a tali nuove disposizioni legislative il pubblico ministero non puo' appellare contro tutte le sentenze di proscioglimento, emesse in qualunque tipo di giudizio.

Tale regola, in forza dell'art. 10 secondo comma della legge si applica agli appelli pendenti che devono essere dichiarati inammissibili, salva la facolta' di proporre ricorso per cassazione nei quarantacinque giorni successivi alla notifica dell'ordinanza di inammissibilita'.

Questa Corte si' trova quindi nella condizione di dovere pronunciare l'ordinanza prevista dal secondo comma dell'art. 10.

E' quindi evidente la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale che questa Corte ritiene di dovere sottoporre d'ufficio allo scrutinio della Corte costituzionale, giudicando non manifestamente infondato il dubbio di incostituzionalita' della norma che elimina il potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento applicabile retroattivamente anche ai giudizi di appello non ancora definiti.

I profili di illegittimita' costituzionale della norma (art. 1, legge n. 46/2006) che ha modificato l'art. 593 c.p.p. ed in particolare. per quanto qui rileva il suo secondo comma, applicabile alla formulazione al processo in corso in forza dell'art. 10 secondo comma della menzionata legge, appaiono plurimi e vanno di seguito esposti.

Va premesso che le considerazioni che si esporranno hanno carattere generale e valgono indiscutibilmente anche per gli appelli avverso sentenze di proscioglimento emesse con rito abbreviato posto che, a parte il diverso modo di formazione delle prove sulla base delle quali il g.u.p. decide, l'appello di dette sentenze sottosta nella sostanza alle stesse regole valevoli per le sentenze emesse a seguito di rito ordinario.

1) Violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma della Costituzione ed in particolare del principio del contraddittorio nel giusto processo e della garanzia della parita' delle armi tra accusa e difesa.

Nel processo de quo il giudice di primo grado, a seguito di giudizio abbreviato, ha accolto la domanda di assoluzione degli imputati e respinto la richiesta del pubblico ministero di condanna degli stessi per il delitto di omicidio premeditato, aggravato dall'essere stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. e reati connessi.

Il giudizio, meramente cartolare perche' svoltosi appunto con rito abbreviato, pur concernendo reati di assoluta gravita' si e' concluso con sentenza emessa da giudice monocratico, a seguito di contraddittorio sugli atti.

Orbene ritiene questa Corte che l'inappellabilita' sopravvenuta della sentenza vulnera il principio del...

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