Sentenza nº 198 da Constitutional Court (Italy), 01 Luglio 2009

RelatorePaolo Maria Napolitano
Data di Resoluzione01 Luglio 2009
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 198

ANNO 2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco AMIRANTE Presidente

- Ugo DE SIERVO Giudice

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Franco GALLO "

- Luigi MAZZELLA "

- Gaetano SILVESTRI "

- Sabino CASSESE "

- Maria Rita SAULLE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "

- Giuseppe FRIGO "

- Alessandro CRISCUOLO "

- Paolo GROSSI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promossi dal Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, con ordinanze del 16 maggio e del 21 luglio 2008, iscritte ai nn. 258 e 421 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 54, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 maggio 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza depositata in data 16 maggio 2008 il Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 76, primo comma, della Costituzione, dell'art. 1, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80).

    1.1. – Riferisce il Tribunale di Napoli di essere chiamato a giudicare in ordine alla istanza di fallimento presentata nei confronti di una società in liquidazione. Dopo aver precisato che la società istante ha dimostrato di essere creditrice nei confronti della fallenda – la quale, pur ritualmente intimata, non si è costituita né è comparsa in giudizio – in forza di un decreto ingiuntivo, divenuto definitivo, per un importo di circa 80.000,00 euro, e che la medesima, secondo quanto emerso in sede di istruttoria prefallimentare, è altresì debitrice, in forza di cartelle esattoriali emesse nei suoi confronti, per altri 95.000,00 euro circa, il rimettente rileva che non è dubbia – tenuto anche conto degli indici offerti dall'avvenuta, considerevole e repentina, contrazione del volume d'affari, dall'abbandono della sede sociale, dal gravoso carico debitorio e, infine, dal mancato deposito dei bilanci successivi all'anno 2003 – la sussistenza a carico della società fallenda del necessario requisito della insolvenza.

    Riguardo alla assoggettabilità di questa al fallimento, rileva il Tribunale che essa deve essere accertata alla stregua dell'art. 1, commi primo e secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, nel testo a tale data vigente.

    Il rimettente ritiene, però, che il comma secondo del citato art. 1, nella parte in cui prevede che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori i quali dimostrino il possesso congiunto dei tre requisiti indicati dalla medesima disposizione – cioè: avere avuto, nei tre esercizi precedenti alla presentazione dell'istanza di fallimento un attivo patrimoniale annuo non superiore a 300.000,00 euro, avere avuto, nel medesimo lasso di tempo, un ricavo lordo annuo non superiore a 200.000,00 euro, ed, infine, di avere debiti, anche non scaduti, per un ammontare non superiore a 500.000,00 euro – sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, violando il principio di ragionevolezza.

    Ciò, puntualizza il rimettente, nella parte in cui grava il debitore dell'onere «di provare la sua non assoggettabilità al fallimento o, se si preferisce, nella parte in cui prevede il fallimento dell'imprenditore insolvente che non abbia dimostrato di non essere ricompreso nell'area di non fallibilità».

    Al proposito, osserva il rimettente che, anteriormente alla riforma del diritto fallimentare operata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), era quasi unanime l'opinione che, ai fini dell'accoglimento della istanza di fallimento, il ricorrente dovesse provare, oltre lo stato di insolvenza del debitore e la sua qualità di imprenditore commerciale, anche il fatto che questi non fosse un piccolo imprenditore.

    Riguardo al criterio distintivo, nell'ampio ambito degli imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il Tribunale di Napoli ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 570 del 1989, abbia chiarito che a fondare siffatta distinzione, in particolare ai fini della assoggettabilità o meno alla procedura fallimentare, debbono essere fissati criteri oggettivi, ancorati alla attività svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entità dell'impresa e alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia nazionale. Ciò al fine di evitare che imprese di modeste dimensioni siano sottoposte alle procedure fallimentari, a rischio, in caso contrario, che queste si trasformino in uno strumento impeditivo della tutela dei creditori.

    Secondo il rimettente, da tali considerazioni si ricaverebbe l'obbligo di legiferare in modo tale da ridurre al minimo i fallimenti nei quali l'attivo non è sufficiente a soddisfare, neppure in parte, i creditori, così liberando «risorse umane e materiali preziose per l'organizzazione giudiziaria» ed evitando, al contempo, di criminalizzare comportamenti privi di reale disvalore.

    1.2. – In questo solco, prosegue il giudice a quo, si era posto il legislatore delegante che, all'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80, (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), aveva previsto, fra i principi e criteri direttivi cui doveva attenersi il Governo nell'attuazione della delega conferitagli, quello di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia».

    Scopo dichiarato dei riportati criteri sarebbe stato, ad avviso del rimettente, la eliminazione di quelle numerosissime procedure, chiuse con la realizzazione di un attivo neppure sufficiente a coprire le spese, il cui bilancio era destinato a gravare sullo Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o per la collettività.

    Il legislatore delegato del 2006, conservando, ai fini della soggezione o meno al fallimento, il tradizionale richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori, aveva dettato alcuni parametri finalizzati alla individuazione degli appartenenti a tale categoria, senza peraltro nulla disporre in merito alla ripartizione del relativo onere probatorio, ed aveva introdotto, all'ultimo comma dell'art. 15 della legge fallimentare, un limite quantitativo minimo dell'ammontare dei debiti scaduti e non pagati, al di sotto del quale non poteva essere dichiarato il fallimento.

    1.3. – Entrata in vigore la riforma, prosegue il rimettente, si è verificata una «sensibilissima riduzione delle dichiarazioni di fallimento», dovuta al fatto che al «dubbio sul superamento da parte del debitore delle soglie quantitative dell'area della fallibilità», fissate dall'allora vigente secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare, seguiva il rigetto della istanza. Tale riduzione, sebbene ritenuta dal rimettente in linea con la delega conferita, sarebbe stata contrastata dal legislatore delegato che, in occasione dell'emanazione del decreto correttivo n. 169 del 2007, ha gravato il debitore dell'onere di dimostrare la sua qualità di imprenditore non soggetto a fallimento, in quanto rientrante nell'area di non assoggettabilità al fallimento delineata dal nuovo secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare.

    Tale riparto dell'onere probatorio, anche se ritenuto dal rimettente, così come emergerebbe anche dalla Relazione illustrativa al d.lgs. n. 169 del 2007, conforme al principio generale in materia espresso dall'art. 2697 cod. civ. nonché a quello, al primo correlato, della prossimità della prova, violerebbe, stante la sua irragionevolezza, l'art. 3 della Costituzione.

    Con esso, infatti, sarebbero state sostanzialmente disattese le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 570 del 1989, la quale aveva evidenziato l'esigenza di un discrimine oggettivo tra imprenditore suscettibile di fallire ed imprenditore non soggetto a tale procedura.

    Addossare, invece, sul debitore l'onere di provare la sua assoggettabilità o meno al fallimento, continua il Tribunale di Napoli, può far dipendere la apertura della procedura concorsuale da un comportamento del debitore stesso che normalmente non dipende «dalla natura e dall'importanza dell'attività economica e dei mezzi impiegati» nell'esercizio dell'impresa, né ha «alcun...

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