Sentenza nº 226 da Constitutional Court (Italy), 25 Luglio 2014

RelatorePaolo Maria Napolitano
Data di Resoluzione25 Luglio 2014
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 226

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Sabino CASSESE Presidente

- Giuseppe TESAURO Giudice

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Sergio MATTARELLA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal Tribunale ordinario di Velletri nel procedimento civile vertente tra B.L. e la ASP – Azienda servizi pubblici spa con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di costituzione di B.L., della ASP – Azienda servizi pubblici spa nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’8 luglio 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Stefano Muggia per B.L., Nicola Petracca per la ASP – Azienda servizi pubblici spa e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Il Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2013, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).

    Il rimettente denuncia la violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, in relazione alla clausola 8.3 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) sostenendo che la disposizione censurata determinerebbe un arretramento del livello generale di tutela previsto per i lavoratori nel caso di successive stipulazioni di contratti a tempo determinato.

    Il Tribunale premette, in punto di fatto, di essere chiamato a decidere sul ricorso presentato da B.L. con cui si chiede l’accertamento dell’illegittimità del termine di durata apposto al contratto di lavoro stipulato con decorrenza dal 7 aprile 2008, nonché della successiva proroga, l’accertamento della «sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed il pagamento del trattamento retributivo dovuto, a decorrere dall’estromissione dal rapporto sino alla riammissione in servizio».

    Nelle more del giudizio – osserva il rimettente – è intervenuta la legge n. 183 del 2010, che, all’art. 32, comma 5, ha limitato l’ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, fissando «un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».

    Tale disposizione è stata successivamente oggetto di interpretazione autentica ad opera dell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 il quale stabilisce che «La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».

    Poiché tali disposizioni troverebbero applicazione anche ai procedimenti in corso, il rimettente ritiene rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 eccepita dalla parte ricorrente. Tale disposizione inciderebbe, infatti, sulla determinazione dell’ammontare del danno spettante al lavoratore, tenuto conto del fatto che dall’attività istruttoria svolta nel giudizio a quo non sarebbero emerse ragioni idonee a giustificare la clausola negoziale di apposizione del termine e che la stipulazione della proroga, formalizzata solo dopo la scadenza del termine precedentemente pattuito, e la prosecuzione di fatto del rapporto, darebbe luogo ad una successione di contratti a termine.

    In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che la normativa concernente il contratto a tempo determinato è di derivazione europea in quanto emanata in attuazione della direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) che a sua volta ha recepito l’accordo quadro tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale del 18 marzo 1999.

    Gli obiettivi cui mirava tale accordo erano due: migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il principio di non discriminazione rispetto al lavoro a tempo indeterminato; creare un quadro normativo di prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti o rapporti a tempo determinato. Con specifico riferimento a questo secondo aspetto, l’accordo quadro stabiliva l’introduzione negli Stati membri di misure di prevenzione di detti abusi e vietava che l’applicazione dell’accordo stesso potesse costituire motivo per ridurre il livello generale di tutela che era offerto ai lavoratori nell’ambito da esso coperto (clausola 8.3).

    Sostiene il giudice a quo che nell’ordinamento interno, prima della legge n. 183 del 2010, era del tutto pacifico in giurisprudenza che il dipendente, dopo la scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, avesse diritto a percepire la retribuzione dal momento in cui provvedeva ad offrire le sue prestazioni lavorative, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro. Ciò in quanto il diritto alla retribuzione si riteneva sinallagmaticamente correlato all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa. Come corollario, si affermava che nel caso in cui non vi fosse stata offerta della prestazione lavorativa, le retribuzioni perdute non potevano essere riconosciute al lavoratore neppure a titolo di risarcimento del danno, in quanto l’interruzione di fatto del rapporto di lavoro non conseguiva ad un’iniziativa del datore di lavoro.

    L’unico punto controverso era costituito dal titolo dell’attribuzione patrimoniale, discutendosi se gli importi corrisposti dal datore di lavoro avessero natura retributiva, come riteneva parte della giurisprudenza, ovvero natura risarcitoria, secondo altro orientamento giurisprudenziale.

    Sostiene il Tribunale rimettente che per effetto dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, tali consolidati principi non potrebbero più trovare applicazione.

    Ciò, a suo avviso, determinerebbe un arretramento del livello generale di tutela previsto per i lavoratori, come tale vietato dall’accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE. La citata clausola 8.3 dell’accordo stabilisce infatti che «L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso» (cosiddetta clausola di non regresso).

    Il rimettente richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea la quale, nel chiarire il significato di «ambito coperto dall’accordo», ha affermato che la verifica della esistenza di una reformatio in peius deve essere effettuata in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori e pertanto con riguardo all’intera disciplina del contratto a termine (sono citate la sentenza 23 aprile 2009, Angelidaki ed altri, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07...

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