Sentenza nº 30 da Constitutional Court (Italy), 25 Febbraio 2014

RelatoreAldo Carosi
Data di Resoluzione25 Febbraio 2014
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 30

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Gaetano SILVESTRI Presidente

- Luigi MAZZELLA Giudice

- Sabino CASSESE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "

- Giuseppe FRIGO "

- Alessandro CRISCUOLO "

- Paolo GROSSI "

- Giorgio LATTANZI "

- Aldo CAROSI "

- Marta CARTABIA "

- Sergio MATTARELLA "

- Mario Rosario MORELLI "

- Giancarlo CORAGGIO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, sostitutivo dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, promosso dalla Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, nel procedimento vertente tra D’Aversa Concettina e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 18 marzo 2013, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

    Riferisce il giudice a quo che la ricorrente del giudizio principale, lavoratrice dipendente di un imprenditore individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di lavoro, per ottenere il pagamento di alcune differenze retributive. Interrottosi il giudizio a causa del fallimento del convenuto, in data 27 marzo 1997 la ricorrente aveva chiesto di essere ammessa al passivo fallimentare, ottenendo l’ammissione del credito per un importo pari ad euro 6.878,47. Di tale somma la ricorrente aveva ricevuto dei pagamenti parziali (nel 2002 e nel 2010) per un totale di euro 6.541,32. Ancora creditrice del residuo, con ricorso depositato il 19 dicembre 2012, aveva adito la Corte d’appello rimettente, chiedendo l’indennizzo del danno non patrimoniale da eccessiva durata della procedura concorsuale (quantificato in euro 8.000,00), oltre accessori e spese legali, sebbene detta procedura, come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare del 14 febbraio 2013, fosse ancora pendente e non fosse definitiva l’attribuzione della minor somma rispetto a quella ammessa al passivo fallimentare.

    1.1.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 – prevedendo nel testo attualmente in vigore che «La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva», precluderebbe la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.

    Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un processo che si è concluso, e non anche a chi si dolga dell’eccessiva durata di quello ancora pendente, nonostante nel secondo caso la lesione appaia più grave. Siffatta discriminazione non sarebbe giustificata dall’esigenza di permettere una valutazione unitaria dell’intero processo, considerato che l’improponibilità della domanda sussisterebbe anche in caso di notevole ritardo già maturato, peraltro con riferimento al diritto primario alla retribuzione lavorativa.

    Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., «in quanto il diritto di agire per l’equa riparazione costituisce ormai una forma di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo presupposto».

    Il rimettente, infine, ritiene che il testo dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto) attualmente in vigore violi l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Sostiene al riguardo che tale disposizione, pur obbligando gli Stati aderenti a garantire il diritto delle parti all’esame della loro causa entro un tempo ragionevole, non imponga la previsione di specifici rimedi risarcitori in caso di violazione. Tuttavia, quale forma di attuazione del principio di sussidiarietà nella tutela del diritto, il rimedio previsto dalla legge Pinto sarebbe visto con favore dalla Corte EDU, tanto da rimettere alla giurisdizione interna le richieste di risarcimento del danno da eccessiva durata del processo in quegli ordinamenti in cui erano state assunte omologhe iniziative legislative. In tale contesto, il predetto rimedio dovrebbe essere dotato del carattere dell’effettività e consentire la massima conformazione possibile del giudice nazionale alla CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Diversamente, la norma censurata avrebbe configurato solo in apparenza un adempimento al vincolo convenzionale, impedendo – secondo il significato univocamente attribuibile alla disposizione censurata, che ne precluderebbe un’interpretazione «convenzionalmente» orientata – l’esperibilità del rimedio in relazione ai cosiddetti processi presupposti non ancora definiti ma già di durata irragionevole. Con riferimento ad essi, la parte danneggiata potrebbe soltanto rivolgersi alla Corte EDU per ottenere il risarcimento, anche in casi, come nella specie, di grave ritardo nella soddisfazione di un diritto primario. Tale preclusione, peraltro, non si giustificherebbe con il fine di ridimensionare la problematica dell’eccessiva durata dei processi, che rimarrebbe inalterata.

    1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente premette che, secondo la giurisprudenza di legittimità, per il creditore fallimentare la durata della procedura, rilevante ai fini della valutazione di ragionevolezza, si calcola dalla data di proposizione della domanda di ammissione al passivo, mentre il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione è individuato nel momento in cui il decreto di chiusura del fallimento assume definitività o con quello dell’eventuale soddisfacimento integrale del credito ammesso al passivo, senza che abbia rilievo l’esecuzione di ripartizioni parziali in corso di procedura. Sulla base di tali premesse, la Corte d’appello di Bari esclude che la domanda di equa riparazione formulata dalla ricorrente sia tardiva, in mancanza di definizione della procedura presupposta e di rilievo dei riparti parziali, ritenendola peraltro prematura alla stregua del nuovo testo dell’art. 4, che non contiene più l’inciso secondo cui la domanda di riparazione «può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata». Tale eliminazione, unitamente al mantenimento del termine semestrale di decadenza, avrebbe il significato univoco di precludere, dal momento di entrata...

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