Sentenza nº 57 da Constitutional Court (Italy), 29 Marzo 2013

RelatoreGiorgio Lattanzi
Data di Resoluzione29 Marzo 2013
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 57

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco GALLO Presidente

- Gaetano SILVESTRI Giudice

- Sabino CASSESE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "

- Giuseppe FRIGO "

- Alessandro CRISCUOLO "

- Paolo GROSSI "

- Giorgio LATTANZI "

- Aldo CAROSI "

- Marta CARTABIA "

- Sergio MATTARELLA "

- Mario Rosario MORELLI "

- Giancarlo CORAGGIO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promossi dal Tribunale di Lecce con ordinanze del 16 maggio e del 7 giugno 2012 e dalla Corte di cassazione con due ordinanze del 10 settembre 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 131, 175, 269 e 270 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 27, 36 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione di P.A.C., di L.M., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi gli avvocati Ladislao Massari per P.A.C., Giuliano Dominici e Fabio Calderone per L.M. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza depositata il 16 maggio 2012 (r.o. n. 131 del 2012), il Tribunale di Lecce, sezione riesame, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale nella parte in cui, prescrivendo che «quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. è applicata la misura cautelare della custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».

    Il rimettente riferisce di essere investito degli appelli presentati dal pubblico ministero e dalla difesa avverso l’ordinanza del 6 dicembre 2012 con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce aveva disposto la sostituzione con gli arresti domiciliari della custodia cautelare in carcere applicata all’imputato, già condannato con rito abbreviato per un episodio di estorsione con l’aggravante dell’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203.

    Il pubblico ministero ha impugnato l’ordinanza lamentando la violazione del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., in forza del quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.

    Anche la difesa ha impugnato l’ordinanza deducendo il ruolo marginale rivestito dall’imputato in un unico episodio di estorsione risalente nel tempo e l’ingiustificata sperequazione rispetto al trattamento riservato ad altri coimputati. Nell’ipotesi di accoglimento dell’appello del pubblico ministero, la difesa, con un’articolata serie di considerazioni, ha eccepito l’illegittimità costituzionale della presunzione di adeguatezza posta dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. La norma censurata costituirebbe irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore, violando gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.: verrebbe, infatti, sottratto al giudice il potere di adeguare la misura al caso concreto, sicché, in violazione del principio di uguaglianza, la norma si risolverebbe nell’«appiattire» situazioni oggettivamente e soggettivamente diverse, con una uguale risposta cautelare. Inoltre, dalla lettura combinata degli artt. 13 e 27 Cost. emergerebbe l’esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative della libertà personale, attribuendo alla custodia in carcere il connotato del rimedio estremo, laddove la norma censurata stabilirebbe un automatismo applicativo tale da rendere inoperanti i criteri di proporzionalità e di adeguatezza.

    Posto che l’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 prevede due articolazioni della circostanza aggravante, quella del “metodo mafioso” e quella dell’“agevolazione mafiosa”, per la prima verrebbe in evidenza il carattere di preponderante autonomia rispetto al reato associativo mafioso: il ricorso al metodo mafioso potrebbe essere addebitato tanto come generale connotato di struttura del reato associativo e/o dei suoi delitti-scopo, quanto come concreta modalità di esecuzione di taluno dei delitti previsti dalla legge penale che nulla condividono con il fenomeno associativo mafioso; soggetti attivi dei delitti aggravati dal metodo mafioso potrebbero essere tanto gli intranei, quanto gli estranei al sodalizio mafioso.

    Richiamati alcuni orientamenti dottrinali e l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’aggravante in esame prescinde di per sé dall’appartenenza all’associazione criminale, la cui compresenza resta comunque con essa compatibile, la difesa ha osservato ancora che, al di là della coincidenza letterale, l’elemento costitutivo previsto dall’art. 416-bis cod. pen. e la circostanza aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 si collocherebbero in ordini di grandezza incommensurabili, tali da imporne una ricostruzione in termini di reciproca autonomia. Mentre la previsione legale di una presunzione iuris et de iure di adeguatezza della custodia carceraria per i delitti aggravati dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa e per quelli aggravati dal metodo mafioso commessi dagli intranei al sodalizio potrebbe apparire ragionevole, in quanto giustificata dalla effettiva esigenza di stroncare il vincolo particolarmente qualificato tra l’associazione mafiosa radicata in un certo ambito territoriale e il proprio affiliato, altrettanto non potrebbe dirsi nel caso dei reati commessi con il metodo mafioso da persone prive di qualsiasi legame con un sodalizio mafioso, come nel caso dell’imputato nel giudizio principale.

    Richiamata la più recente giurisprudenza costituzionale sulla norma censurata, la difesa ha osservato che l’aggravante del metodo mafioso potrebbe ricomprendere fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro per quanto concerne il coefficiente di pericolosità e, pertanto, sarebbe indubbio il carattere accentuatamente discriminatorio della presunzione in materia di misure cautelari: il carattere assoluto di tale presunzione negherebbe rilevanza al principio del “minor sacrificio necessario”, laddove la previsione di una presunzione solo relativa non eccederebbe i limiti di compatibilità costituzionale.

    L’ordinanza n. 450 del 1995 della Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. proprio in relazione al reato aggravato ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 nella differente forma dell’agevolazione mafiosa, ma la più recente evoluzione della giurisprudenza costituzionale porrebbe nuovi problemi di interpretazione della norma in questione, soprattutto nel peculiare caso del reato aggravato dal metodo mafioso; nemmeno dirimente, al riguardo, sarebbe la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia), relativa al solo reato di associazione di tipo mafioso.

    Ripercorse le argomentazioni difensive, l’ordinanza di rimessione mette in luce la potenziale fondatezza dell’appello del pubblico ministero, perché l’imputato è stato condannato per estorsione aggravata dal metodo mafioso e, in applicazione della presunzione di adeguatezza posta dalla norma censurata, si dovrebbe ripristinare la misura della custodia in carcere, data l’impossibilità di pervenire a un giudizio di assenza del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quelli per i quali si procede.

    La questione di legittimità costituzionale proposta dal difensore perciò sarebbe rilevante e anche non manifestamente infondata.

    L’orientamento espresso dalla giurisprudenza costituzionale sulla non riconducibilità dei delitti contro la libertà sessuale, del reato dell’art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e del reato dell’art. 575 cod. pen. tra quelli «espressione dell’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, o della condivisione dei disvalori da queste fatti propri» potrebbe essere agevolmente ribadito anche per «quella particolare manifestazione della condotta criminosa consistente nell’avvalersi delle condizioni di assoggettamento indicate dall’art. 416 bis c.p.». Anche questi delitti avrebbero o potrebbero avere una struttura individuale e, per le loro connotazioni, sarebbero tali da non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere.

    Consistendo in una peculiare manifestazione dellazione antigiuridica, laggravante in questione, osserva ancora il rimettente, può accompagnare la commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa. La locuzionedelitti di mafia richiamata dalla...

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