Legittimità

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Rivista penale 9/2012
Legittimità
CORTE DI CASSAZIONE PENALE
SEZ. VI, 6 GIUGNO 2012, N. 21913
(UD. 13 GENNAIO 2012)
PRES. DI VIRGINIO – EST. IPPOLITO – P.M. MAZZOTTA (DIFF.) – RIC. BONVICINI
ED ALTRI
Falsa testimonianza y Estremi y Determinazione al
reato di persona non imputabile y Conf‌igurabilità del
reato a carico del soggetto agente y Fondamento.
. È possibile che, ai sensi dell’art. 111 c.p., sia chiamato
a rispondere del reato di falsa testimonianza chi abbia
determinato a commettere tale reato un soggetto che si
trovi nella condizione di poter fruire della causa di non
punibilità prevista dall’art. 384, comma secondo, c.p.
(c.p., art. 111; c.p., art. 372; c.p., art. 384) (1)
(1) Per Cass. pen., sez. III, 26 marzo 2003, B., in D&G - Dir. e giust.
2003, 25, 47, con nota di PEZZELLA, non è punibile ai sensi dell’art.
111 c.p., colui il quale induca a dichiarare il falso una persona non
punibile, ex art. 384 c.p., quando lo stesso istigatore avrebbe potuto
avvalersi della medesima esimente.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza pronunciata in data 9 giugno 2005, il
giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Brescia,
assolse Massimo Bonvicini, Stefano Loiacono e Roberto
Merlin, “per non avere commesso il fatto”, dal reato di
concorso continuato nel delitto di falsa testimonianza
commesso da Giulio Carraro, Giovanni Tinti, Redento
Tinti in udienza penale dinanzi al Tribunale di Brescia nel
procedimento nei confronti di Enrico Venturelli e Roberto
Merlin, imputati di reati f‌iscali, reati fallimentari, truffa in
danno dello Stato, associazione per delinquere ed altro.
Secondo la contestazione, Giulio Carraro, Giovanni
Tinti, Redento Tinti, autisti dipendenti del Venturelli,
avevano reso dichiarazioni false, favorevoli al datore di la-
voro, su istigazione del Bonvicini e del Loiacono, avvocati
difensori del medesimo Venturelli.
Aperto il procedimento penale nei confronti dei pre-
detti autisti per falsa testimonianza, essi resero al Pub-
blico Ministero numerose e varie dichiarazioni, sino alla
ritrattazione f‌inale.
Nella sentenza, dopo un’analitica esposizione delle nu-
merose e contrastanti dichiarazioni di Carraro e dei due
Tinti, si concludeva rimarcando “la stucchevole girandola
delle versioni sempre diverse l’una dall’altra”, rese dai
predetti autisti, che avevano “dato vita, nel complesso,
ad un crogiuolo talmente inf‌ido da rendere improduttivo
e sterile per le esigenze del processo - e più in generale
del diritto ogni sforzo diretto a setacciare e distinguere
all’interno di esso gli elementi genuini da quelli contami-
nati”. Per mancanza di coerenza e di logicità intrinseca
delle chiamate in correità, Carrara e Giovanni Tinti ve-
nivano qualif‌icati “persone radicalmente non credibili,
e ciò a prescindere dai contenuti dei loro racconti”, con
l’aggiunta che l’atteggiamento processuale degli stessi
risultava “pesantemente inquinato da logiche economiche
e remunerative”, per essere emerso che avevano tentato
di “vendere il loro silenzio”, nel procedimento a carico
del loro datore di lavoro, in stato di detenzione, al prezzo
di “10 o 20 mila euro ciascuno”, richiesto ai familiari del
Venturelli.
2. La Corte d’appello di Brescia, in accoglimento del-
l’impugnazione del pubblico ministero, in riforma della
sentenza di primo grado, ha dichiarato gli imputati colpe-
voli dei reati loro ascritti e - nella ritenuta equivalenza tra
circostanze attenuanti generiche e aggravanti contestate
e con la diminuente del rito abbreviato - ha condannando
Bonvicini e Lojacono alla pena di due anni e sei mesi di
reclusione (interamente condonata), nonché alla pena
accessoria dell’interdizione dalla professione di avvocato
per un anno, e Merlin a quella due anni di reclusione (con-
donata nella misura di un mese e un giorno).
3. Ricorrono per cassazione i tre imputati, tramite i ri-
spettivi difensori, i quali deducono motivi in larga parte
comuni, anche se diversamente formulati, che si possono
così sintetizzare:
a) nullità della sentenza per violazione degli artt. 545
e 546, commi 1 e 3, cod. proc. pen., con riferimento all’art.
606, comma 1, lett. c), c.p.p., per mancanza o, comunque,
per incompletezza degli elementi essenziali del dispositi-
vo, con incertezza sul termine di impugnazione;
b) violazione dell’art. 384, comma secondo, c.p. con
riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., per man-
cata rilevazione del difetto di tipicità del contestato reato
di falsa testimonianza, in quanto commesso da soggetti
(Carraro e i due Tinti) che non avrebbero potuto essere
obbligati a deporre o comunque a rispondere nel processo
in cui fu commesso il reato di falsa testimonianza, giacché
gli stessi erano concorrenti nei reati f‌iscali contestati al
Venturelli;
c) violazione dell’art. 384, comma 1, c.p. per mancata
applicazione (anche nei confronti degli odierni imputati,
concorrenti nel reato) della causa di non punibilità previ-
sta in favore di chi abbia commesso il reato di cui all’art.
372 c.p. per esservi stato costretto dalla necessità di sal-
vare se medesimo da un grande nocumento nella libertà
o nell’onore;
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d) violazione dell’art. 372 c.p. e dell’art. 192, comma 3,
c.p.p., e vizio di motivazione, con riferimento all’art. 606,
comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione alla valutazione
dalle dichiarazioni rese da Giulio Carrara, Giovanni Tinti e
Enrico Venturelli, Nunzia Maranta e Calca Beccalossi;
e) violazione dell’art. 372 c.p. ed dell’art. 192, comma 3,
c.p.p., e vizio di motivazione, con riferimento all’art. 606,
comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione alla valutazione
delle predette dichiarazioni e dei riscontri esterni, anche
sotto l’aspetto della mancata presa in considerazione de-
gli argomenti difensivi esposti nelle memorie depositate
in primo e secondo grado.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Non sussiste la dedotta nullità della sentenza per
violazione degli artt. 545 e 546, commi 1 e 3, c.p.p., con
riferimento all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., pur corri-
spondendo a verità quanto denunciato da taluni ricorrenti,
con riferimento alla mancata lettura del dispositivo della
sentenza.
Come hanno precisato le Sezioni Unite di questa Corte,
la sentenza pronunciata in appello all’esito di giudizio
abbreviato deve essere pubblicata mediante lettura del
dispositivo in udienza camerale dopo la deliberazione, e
non mediante deposito in cancelleria. Tuttavia, in caso di
omessa lettura, la sentenza non è abnorme o nulla, veri-
f‌icandosi una mera irregolarità, che produce però effetti
giuridici, impedendo il decorso dei termini per l’impugna-
zione. (Cass. pen., sez. un., n. 12822 del 21 gennaio 2010,
Rv. 246269, Marcarino).
2. Meritano invece accoglimento, nei limiti di seguito
specif‌icati, le censure sostanziali dedotte dai ricorren-
ti per erronea applicazione di norme penali e violazione
dell’obbligo rafforzato di motivazione della sentenza d’ap-
pello che, in accoglimento dell’impugnazione del pubblico
ministero, riformi la decisione assolutoria del giudice di
primo grado.
3. È consolidata giurisprudenza di questa Corte che
la sentenza di appello che ribalta il giudizio assolutorio
di primo grado deve confutare specif‌icamente, a pena di
vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a
sostegno della decisione assolutoria, dimostrando pun-
tualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico de-
gli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado,
anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti
dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredar-
si di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a
quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte
operate e della maggiore considerazione accordata ad
elementi di prova diversi o diversamente valutati (Cass.
pen., sez. VI, n. 6221/2006, Rv. 233083, Aglieri; Cass. pen.,
sez. un., n. 45276/2003, Andreotti).
A tale consolidato orientamento di legittimità, occorre
aggiungere la considerazione che il principio secondo cui
il giudizio di condanna è legittimo “se l’imputato risulta
colpevole [ ...] al di là di ogni ragionevole dubbio”, (art.
533, comma 1, c.p.p., come modif‌icato dall’art. 5 della L. 20
febbraio 2006, n. 46), implica che, in mancanza di elemen-
ti sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel
processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acqui-
sito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti
dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza
assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’ap-
pello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato
del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione
di colpevolezza.
Come è stato eff‌icacemente affermato, non basta più
“per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera di-
versa valutazione caratterizzata da pari o addirittura mino-
re plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice,
occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da
far cadere “ogni ragionevole dubbio”, in qualche modo in-
trinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna,
invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre
l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza,
ma la mera non certezza della colpevolezza” (Cass. pen.,
sez. VI, n. 40159//2011, rv. 251066, Galante; Cass. pen.,
sez. VI, n. 40513/2011, Coruzzi, n.m.; Cass. pen., sez. VI, n.
4996/2012, rv. 251782, Abbate).
3.1. Orbene, la sentenza impugnata è venuta meno a
tale obbligo di motivazione rafforzata, tanto più in presen-
za di memorie di parte che aggiungevano ulteriori argo-
mentazioni, in senso assolutorio, rispetto a quelle emer-
genti dalla motivazione della sentenza di primo grado.
In particolare, i giudici d’appello hanno troppo sbriga-
tivamente superato la valutazione d’inattendibilità dei di-
chiaranti Carraro e Giovanni Tinti, ritenuti dal Tribunale
“persone radicalmente non credibili, e ciò a prescindere
dai contenuti dei loro racconti”.
I giudici d’appello non hanno fornito una convincente
motivazione né in ordine alla credibilità dei suddetti di-
chiaranti, di cui risulta evidenziato l’interesse economico
a “vendere” il loro silenzio (ciò che implica la disponibi-
lità di rendere dichiarazioni non veritiere ed interessate,
una volta mutato il contesto di riferimento) né in ordine
all’autonomia e genuinità delle dichiarazioni, la cui tra-
scrizione contenuta negli atti difensivi palesa singolarissi-
me identità di espressioni e riferimenti erronee a soggetti,
che evidenziano un testo concertato tra i dichiaranti, e da
essi meccanicamente recitato senza neppure l’accortezza
di modif‌icare le rispettive diverse identità soggettive.
4. I rilievi che precedono sono già suff‌icienti a imporre
l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Questa, peraltro, ha omesso di affrontare una serie di
problemi giuridici, il cui preventivo esame appariva do-
veroso prima di affermare la penale responsabilità degli
imputati.
Dalla lettura degli stessi capi d’imputazione emerge
che gli autisti Giulio Gennaro, Giovanni Tinti e Redento
Tinti - i quali, in violazione dell’art. 372 c.p., avevano
affermato d’aver trasportato, per conto delle imprese del
Venturelli, carichi di vergella di alluminio, essendo ben
consapevoli di avere in realtà effettuato carichi di tra-
sporti di pani o billette di alluminio, materiale che, a dif-
ferenza della vergella, è esenta da IVA - erano imputabili,
o quanto meno indiziabili, per concorso in taluni dei reati
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f‌iscali addebitati al Venturelli e, pertanto, non dovevano
e non potevano essere sentiti in qualità di testimoni, non
essendo ammissibile l’obbligo di deporre su fatti dai quali
potrebbe emergere una responsabilità personale del di-
chiarante (art. 198, comma 2, c.p.), con conseguente ap-
plicabilità dell’art. 384, comma 2, c.p..
II giudice d’appello non poteva e non doveva sentirsi
vincolato dalle scelte operate dal pubblico ministero e dai
giudici nel procedimento penale nei confronti di Enrico
Venturelli, nel cui ambito erano stati sentiti gli autisti in
qualità di testi, competendo alla Corte bresciana, che ha
affermato la penale responsabilità degli odierni imputati,
l’obbligo di autonomamente apprezzare la corretta qualif‌i-
ca da attribuirsi ai predetti autisti, eventualmente disco-
standosi anche dalle valutazioni e dalle conclusioni a suo
tempo effettuate dal giudice del procedimento in cui tali
dichiarazioni furono rese (v., tra le più recenti, Cass. pen.,
sez. un., n. 7208/2007, Genovese, e n. 15208/2010, Milis).
4.1. Da tali rilievi i ricorrenti, sull’assunto che l’art. 384,
comma 2, c.p. conf‌igurerebbe un’ipotesi in cui ricorre difet-
to di tipicità del fatto-reato, fanno derivare la necessaria
assoluzione degli odierni imputati, concorrenti in un fatto
che non integra il reato proprio di cui all’art. 372 c.p..
Per la verità nei ricorsi si denuncia anche l’erronea ap-
plicazione dell’art. 384, comma 1, c.p., ma tale deduzione
appare del tutto inconferente, giacché nel caso in esame
non ricorre l’ipotesi di persona, legittimamente assunta
come teste, che ha commesso il delitto di cui all’art. 372
c.p. “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare
se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevi-
tabile nocumento nella libertà o nell’onore”, bensì quella
di “chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di
fornire informazioni ai f‌ini delle indagini o assunto come
testimone [...] ovvero non avrebbe potuto essere obbligato
a deporre o comunque a rispondere” (art. 384, comma 2,
c.p.).
Osserva il Collegio che, per affrontare quest’ultimo pro-
blema, è indispensabile esaminare se la condotta addebi-
tata agli odierni imputati integri o meno la previsione di
cui all’art. 111, comma 1, c.p., il quale prevede che “chi ha
determinato a commettere un reato una persona [...] non
punibile a cagione di una condizione o qualità personale,
risponde del reato da questa commesso”, previsione che,
prima di costituire anche un’aggravante, conf‌igura un’ipo-
tesi particolare di punibilità del concorrente determinato-
re, pur in presenza di specif‌iche ipotesi di non punibilità
dell’autore del reato.
Invero, al di là delle ricostruzione dogmatiche delle
fattispecie disciplinate dall’art. 384, comma 2, c.p., l’inter-
prete-giudice deve innanzitutto considerare che il legi-
slatore nel predetto articolo ha espressamente previsto
determinati “casi di non punibilità” e che la disciplina del
concorso di persone nel reato, all’art. 111 c.p., accanto
all’ipotesi della persona non imputabile, prende in esame
anche quello della persona “non punibile a cagione di una
di una condizione o qualità personale”.
Orbene, non sussiste alcun elemento normativo che
impedisca di prendere in considerazione, nell’ipotesi di
concorso di persone nel reato, la situazione di chi ha de-
terminato alla commissione del delitto una persona che,
per essere stata richiesta di fornire informazioni ai f‌ini
delle indagini o assunta come teste, si trovi nella condi-
zione prevista dall’art. 384, comma 2, c.p., condizione che
ovviamente non può che qualif‌icarsi come “personale”.
È ben evidente il particolare disvalore che il legisla-
tore, nella disciplina del concorso di persone nel reato,
ha inteso assegnare alla condotta del determinatore, al
punto da avvertire la necessità di specif‌icare, ad evitare
ogni dubbio, che del reato commesso dalla persona de-
terminata, autore del fatto tipico, non punibile a cagione
di condizioni o qualità personali, non soltanto risponde il
determinatore, ma “la pena è aumentata”.
4.2. L’esame di tale questione implica, però, un preven-
tivo accertamento di fatto di competenza del giudice del
merito, giacché, mentre il capo d’imputazione contesta agli
imputati Bonvicini e Loiacono, oltre al ruolo di istigatori,
anche quello di “diretti e consapevoli determinatori della
condotta criminosa consumata in udienza” dai tre autisti,
nella sentenza della Corte bresciana manca uno specif‌ico
esame del ruolo di determinazione degli imputati, per la
cui integrazione non è suff‌iciente una semplice richiesta,
sollecitazione o istigazione verso colui che del fatto-rea-
to tipico, occorrendo invece che la condotta dell’agente
determinatore abbia fatto insorgere nel “determinato”
un’intenzione criminosa prima inesistente (cfr. Cass. pen.,
sez. IV, n. 38107/2010, Rv. 248406; Cass. pen., sez. IIII, n.
1516/1969, Rv. 113164).
5. In conclusione, ritenuto assorbito ogni altro motivo,
la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio
ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia per nuovo
giudizio. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE PENALE
SEZ. III, 1 GIUGNO 2012, N. 21279
(C.C. 24 GENNAIO 2012)
PRES. PETTI – EST. ANDRONIO – P.M. FRATICELLI (CONF.) – RIC. P.M. IN PROC.
PEN. GIACOBAZZI
Frode nell`esercizio del commercio y Elemento
oggettivo y Tutela penale dei prodotti tipici y De-
f‌inizione di “balsamico” attribuita ad un prodotto
destinato al condimento y Confondibilità con il
prodotto tutelato “Aceto balsamico di Modena” y
Conf‌igurabilità del reato y Esclusione.
. In tema di tutela penale dei prodotti tipici, è da esclu-
dere che la sola def‌inizione di “balsamico” attribuita
ad un prodotto destinato al condimento di cibi possa
dar luogo alla conf‌igurabilità dei reati di frode in com-
mercio e di vendita di prodotti industriali con segni
mendaci, per l’asserita capacità evocativa del diverso
prodotto costituito dall’Aceto balsamico di Modena,
protetto dal Regolamento CE n. 583 del 2009. (Mass.
Redaz.) (c.p., art. 515; c.p., art. 517) (1)

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