Sentenza nº 231 da Constitutional Court (Italy), 22 Luglio 2011

RelatoreGiuseppe Frigo
Data di Resoluzione22 Luglio 2011
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 231

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo MADDALENA Presidente

- Alfio FINOCCHIARO Giudice

- Alfonso QUARANTA ”

- Franco GALLO ”

- Luigi MAZZELLA ”

- Gaetano SILVESTRI ”

- Sabino CASSESE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di B.B. con ordinanza del 5 novembre 2010, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

  1. – Con ordinanza depositata il 5 novembre 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare la misura degli arresti domiciliari, o altra misura cautelare comunque meno afflittiva della custodia in carcere, in relazione al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, previsto dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

    Il giudice a quo premette di dover decidere su un’istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere, o di sostituzione della stessa con altra misura meno grave, proposta dal difensore di una persona imputata dei delitti di cui agli artt. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. All’interessata – sottoposta a custodia in carcere a partire dal 22 aprile 2009 – erano stati contestati, in particolare, la partecipazione a un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e plurimi fatti di acquisto e vendita illeciti di tali sostanze: reati per i quali, con sentenza del 16 giugno 2010, emessa a seguito di giudizio abbreviato, ella era stata condannata in primo grado alla pena di nove anni di reclusione.

    A sostegno dell’istanza, il difensore aveva dedotto che le esigenze cautelari, legate al pericolo di commissione di reati analoghi, dovevano ritenersi cessate o quantomeno affievolite, alla luce di un complesso di circostanze: quali, in specie, l’«efficacia deterrente» del lungo periodo di detenzione fino ad allora patito dall’imputata, la sua incensuratezza, il comportamento sostanzialmente collaborativo da lei tenuto nel corso del processo e l’esigenza di riallacciare i rapporti con i figli minori, interrotti dall’inizio della carcerazione preventiva. Il difensore aveva prodotto, altresì, la dichiarazione di disponibilità del responsabile di un istituto religioso ad accogliere l’imputata in regime di arresti domiciliari.

    Ad avviso del giudice a quo, gli elementi addotti dalla difesa, seppure inidonei a dimostrare il venir meno delle esigenze cautelari, sarebbero comunque indicativi di una loro significativa attenuazione: ciò, anche alla luce delle peculiarità della vicenda concreta, che aveva visto il vincolo associativo svilupparsi in un ambito «sostanzialmente familiare» e in un periodo nel quale quasi tutti gli associati erano anche consumatori di sostanze stupefacenti. Le evidenziate circostanze farebbero ritenere, in specie, che il periculum libertatis possa essere adeguatamente fronteggiato con la misura degli arresti domiciliari in un luogo diverso da quello in cui le condotte criminose si erano sviluppate, quale l’istituto religioso indicato dal difensore.

    All’accoglimento dell’istanza osterebbe, tuttavia, la preclusione, introdotta dalla novella legislativa modificativa dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati, – tra cui quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (evocato tramite il rinvio all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».

    Tale disposizione, secondo il corrente orientamento della giurisprudenza di legittimità, dovrebbe trovare applicazione – in forza del principio tempus regit actum, trattandosi di norma processuale – anche in rapporto alle misure cautelari da adottare per i fatti delittuosi commessi – come nel caso di specie – anteriormente alla data di entrata in vigore della novella legislativa.

    Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma denunciata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.

    Al riguardo, il giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per contrasto con gli indicati parametri costituzionali, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

    Con la pronuncia ora ricordata – il cui iter argomentativo viene ampiamente ripercorso nell’ordinanza di rimessione – la Corte avrebbe individuato precisi limiti entro i quali la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari – sancita dalla norma censurata in deroga ai principi generali regolativi della materia – può ritenersi compatibile con il dettato costituzionale.

    Si tratterebbe, da un lato, di limiti negativi derivanti dalla presunzione di non colpevolezza, a fronte dei quali detta disciplina derogatoria non può essere giustificata né dalla gravità astratta del reato – rilevante solo ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio – né della necessità di eliminare o ridurre l’allarme sociale causato dal reato medesimo, essendo questa una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile dell’allarme.

    Dall’altro lato, sussisterebbero limiti positivi legati al rispetto del principio di ragionevolezza, posto alla base del giudizio di bilanciamento fra i diversi interessi tutelati dall’ordinamento. Affinché la disciplina in questione risulti costituzionalmente tollerabile, dovrebbe risultare enucleabile, in relazione a determinate fattispecie criminose, una regola di esperienza che consenta di formulare a priori una valutazione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria, escludendo l’agevole ipotizzabilità di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a fondamento della presunzione. Si tratterebbe di una «prova di resistenza», da effettuare sulla base delle caratteristiche strutturali delle figure delittuose prese in considerazione: «prova di resistenza» che la Corte avrebbe in effetti espletato, con esito positivo, in rapporto ai delitti di mafia (ordinanza n. 450 del 1995).

    Quanto alla figura criminosa che interessa, il delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 è una figura speciale del delitto di associazione per delinquere, che si differenzia da questo solo per la specificità del programma criminoso, costituito dalla commissione di più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 del medesimo decreto. Le caratteristiche strutturali della fattispecie criminosa non divergerebbero, per il resto, da quelle del reato associativo comune. Per costante giurisprudenza, infatti, i suoi elementi essenziali sarebbero costituiti dal carattere indeterminato del programma criminoso e dalla permanenza della struttura, senza che occorra un accordo consacrato in manifestazioni di formale adesione né un’organizzazione con gerarchie interne e distribuzione di specifiche cariche e compiti: essendo sufficiente, al contrario, una qualunque forma organizzativa, sia pure rudimentale, deducibile dalla predisposizione di mezzi, anche semplici, per il perseguimento del fine comune.

    Si sarebbe...

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