Sentenza nº 80 da Constitutional Court (Italy), 11 Marzo 2011

RelatoreGiuseppe Frigo
Data di Resoluzione11 Marzo 2011
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 80

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Ugo DE SIERVO Presidente

- Paolo MADDALENA Giudice

- Alfio FINOCCHIARO ”

- Alfonso QUARANTA ”

- Franco GALLO ”

- Luigi MAZZELLA ”

- Gaetano SILVESTRI ”

- Sabino CASSESE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di D.P.E. con ordinanza del 12 novembre 2009, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di costituzione di D.P.E.;

udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

udito l’avvocato Alfredo Gaito per D.P.E.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 12 novembre 2009, la Corte di cassazione, seconda Sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui «non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica».

Il giudice a quo riferisce che con decreto del 9 giugno 2008 la Corte d’appello di Catania aveva confermato il decreto emesso dal Tribunale di Siracusa il 7 febbraio 2008, con il quale una persona indiziata di appartenenza a una associazione di stampo mafioso era stata sottoposta, in applicazione della legge n. 575 del 1965, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno presso il Comune di residenza per la durata di un anno ed erano stati, altresì, confiscati un immobile e un’autovettura intestati alla moglie del proposto.

Il decreto del giudice d’appello era stato impugnato con ricorso per cassazione dai difensori dell’interessato. Facendo leva sui principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, uno dei difensori aveva, tra l’altro, eccepito, ai sensi dell’art. 609, comma 2, del codice di procedura penale, la violazione del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»). Il medesimo difensore aveva chiesto, quindi, che il ricorso venisse trattato in udienza pubblica in applicazione «estensiva» dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., attribuendo a tale istanza «conseguenze invalidanti per le decisioni di merito», in quanto «ambedue scaturite all’esito di procedure da ritenere illegali ora per allora».

Con ordinanza del 14 maggio 2009, il Collegio rimettente, rilevato che le questioni di diritto sottoposte al suo esame avevano dato luogo o potevano dare luogo a un contrasto giurisprudenziale, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite. Il Presidente aggiunto della Corte di cassazione, con provvedimento del 22 giugno 2009, aveva restituito tuttavia il procedimento, ritenendo che la Sezione avesse omesso «di soffermarsi adeguatamente sulla specialità che connota il giudizio di cassazione» e che non dovesse trascurarsi, inoltre, la circostanza che, in materia di misure di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge (art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956).

Fissata quindi una nuova camera di consiglio per l’esame del ricorso davanti alla Sezione rimettente, il ricorrente aveva depositato memoria, insistendo nelle richieste formulate.

Tanto premesso, il giudice a quo osserva che, con la citata sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rilevato che la pubblicità delle procedure giudiziarie, garantita dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU (secondo cui «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge»), tutela le persone soggette a una giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici, concorrendo all’attuazione dell’equo processo. La citata norma della Convenzione – ha soggiunto la Corte europea – non esclude che le autorità giudiziarie possano derogare al principio di pubblicità, tenuto conto delle particolarità della causa sottoposta al loro esame. La situazione è, tuttavia, diversa allorché – come avviene, nell’ordinamento italiano, per il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione – una procedura si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che la persona soggetta a giurisdizione abbia la possibilità di sollecitare una pubblica udienza: non potendo una simile procedura ritenersi conforme all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

In replica ai rilievi del Governo italiano – che aveva allegato, a giustificazione della mancanza di pubblicità, il carattere altamente tecnico della procedura di applicazione delle misure patrimoniali – la Corte di Strasburgo ha rilevato che non si può comunque «perdere di vista la posta in gioco» nelle procedure di cui si discute e gli effetti che esse possono produrre sulle persone coinvolte: prospettiva nella quale non è possibile affermare che il controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato. Di conseguenza, ha giudicato «essenziale» che le persone sottoposte a giurisdizione nell’ambito di dette procedure «si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

Tale conclusione è stata successivamente ribadita dalla Corte di Strasburgo con la sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia, così da potersi parlare di un indirizzo interpretativo consolidato.

Il Collegio rimettente ricorda, in pari tempo, come la Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, abbia chiarito che le norme della CEDU, nella interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto degli obblighi assunti dall’Italia a livello internazionale. Con la conseguenza che spetta al giudice comune interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti in cui ciò sia consentito dal dato testuale; mentre, qualora tale operazione non sia possibile – esclusa una diretta disapplicazione della norma interna da parte del giudice – quest’ultimo deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, in riferimento al parametro dianzi indicato.

Nel caso in esame non sarebbe, in effetti, possibile interpretare la norma interna in senso conforme alla disposizione convenzionale, ostandovi l’evidenza del dato testuale. L’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, ai commi sesto, decimo e undicesimo, prevede, infatti, in modo specifico e inequivoco – con disposizioni valevoli, oltre che per le misure personali, anche per quelle a carattere patrimoniale previste dalla speciale normativa antimafia, di cui all’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 – che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in camera di consiglio. Né potrebbe applicarsi in via analogica alla procedura in esame l’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale stabilisce che il giudizio abbreviato si svolge in camera di consiglio, ma che se tutti gli imputati ne fanno richiesta esso ha luogo in udienza pubblica. Una simile operazione ermeneutica risulterebbe impedita, per un verso, dal fatto che il ricorso all’analogia è consentito solo per regolare ipotesi non previste dalla legge; per altro verso, dalla natura eccezionale della norma da ultimo citata.

Neppure, poi, potrebbe condividersi la tesi, accolta in altre occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimità, stando alla quale i principi affermati dalla Corte europea nella sentenza del 13 novembre 2007 non sarebbero di ostacolo alla trattazione dei ricorsi per cassazione in materia di misure di prevenzione con la procedura camerale – e, in particolare, con la cosiddetta procedura «non partecipata», di cui all’art. 611 cod. proc. pen. (caratterizzata da un contraddittorio esclusivamente scritto) – posto che la predetta sentenza non reca alcun riferimento al giudizio che si svolge dinanzi alla Corte di cassazione.

Se è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha in più occasioni affermato che il diritto a un’udienza pubblica dipende dalla natura delle questioni da trattare e che esso può venire, in particolare, escluso quando debbano trattarsi unicamente questioni di diritto; la medesima Corte ha, però, anche precisato che l’assenza dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, può trovare giustificazione solo se in primo grado la pubblicità sia stata garantita.

Il ricordato indirizzo della giurisprudenza di...

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