Sentenza nº 148 da Constitutional Court (Italy), 03 Giugno 1983

RelatoreLivio Paladin
Data di Resoluzione03 Giugno 1983
EmittenteConstitutional Court (Italy)

SENTENZA N. 148

ANNO 1983

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente

Dott. MICHELE ROSSANO

Prof. ANTONINO DE STEFANO

Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN

Avv. ORONZO REALE

Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI

Avv. ALBERTO MALAGUGINI

Prof. LIVIO PALADIN

Dott. ARNALDO MACCARONE

Prof. ANTONIO LA PERGOLA

Prof. VIRGILIO ANDRIOLI

Prof. GIUSEPPE FERRARI

Dott. FRANCESCO SAJA

Prof. GIOVANNI CONSO

Prof. ETTORE GALLO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Componenti del Consiglio superiore della magistratura: non punibilità per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni e concernenti l'oggetto della discussione) promosso con ordinanza emessa il 31 gennaio 1983 dal giudice istruttore del tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Bertoni Raffaele ed altri iscritta al n. 113 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46 del 1983.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella pubblica udienza del 12 aprile 1983 il Giudice relatore Livio Paladin;

udito l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - In un procedimento penale a carico di alcuni componenti del Consiglio superiore della magistratura, imputati di interesse privato in atti di ufficio, il giudice istruttore del Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (sulla non punibilità dei componenti il Consiglio superiore per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni e concernenti l'oggetto della discussione), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 28 e 112 della Costituzione.

    Circa la riconducibilità delle condotte in esame alla norma impugnata, il pubblico ministero aveva concluso in senso negativo, ritenendo che quell'esimente "non poteva estendersi ai fatti-reato diversi dalle offese all'onore e alla reputazione". Per contro, il giudice a quo procede dalla premessa che il citato art. 5 riguardi qualunque manifestazione di pensiero, esposizione di fatti, formulazione di giudizi, dichiarazione di volontà ...: con la conseguenza che i comportamenti denunciati (pur consistendo in "informazioni parziali o travisate, insinuazioni capziose, attestazioni false, affermazioni calunniose, ecc.") "rientrerebbero... nella valutazione scriminante".

    Nel merito, "istituendo una frangia di funzionari sciolti dalla legge penale nel delineato esercizio o meglio abuso delle pubbliche funzioni", la norma in questione verrebbe però a contrastare con una serie di principi costituzionali: con l'art. 28 Cost., perché ridurrebbe l'area della responsabilità penale di pubblici funzionari, quali sono pur sempre - si afferma - i componenti del Consiglio superiore della magistratura; con il "principio dell'obbligatorietà dell'azione del P.M.", cui non si potrebbe derogare - secondo la giurisprudenza della Corte - se non eccezionalmente e per mezzo di norme costituzionali; con il principio generale d'eguaglianza, per l'ingiustificata disparità di trattamento che ne discenderebbe. Non sembra, infatti - rileva il giudice istruttore - "che la norma dell'art. 5 poggi su un plausibile sostrato, tanto più che nel regime repubblicano i diritti di libertà assicurati a tutti i cittadini e l'indipendenza della magistratura, che si ravvisa proprio nella sua esclusiva incondizionata soggezione alla legge, appaiono da sole sufficienti a tutelare i funzionari che adempiono al loro dovere, mentre proteggere chi il proprio dovere non compie sarebbe ingiusto e antidemocratico".

  2. - Intervenuto nel presente giudizio, il Presidente del consiglio dei ministri ha eccepito anzitutto che la proposta questione sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza. In ogni caso, infatti, il principio d'irretroattività stabilito in materia penale all'art. 25 cpv. Cost. escluderebbe che siano punibili - per effetto di un eventuale annullamento della norma impugnata - "condotte... poste in essere antecedentemente, quando, cioé, in vista della causa di non punibilità in esame, la punibilità era esclusa".

    Per altro, la questione sarebbe comunque infondata. Premesso che la norma impugnata avrebbe inteso prevedere una "causa di non punibilità" (come si ricaverebbe dai lavori preparatori), l'atto di intervento assume che previsioni del genere possano legittimamente contenersi in leggi ordinarie, purché "coerenti con le disposizioni della stessa Costituzione ". Ora, sul medesimo piano di analoghe fattispecie costituzionalmente rilevanti (quale, soprattutto, la cosiddetta immunità parlamentare), anche la norma in esame dovrebbe, da un lato, collegarsi alle generalissime cause di giustificazione dell'esercizio di un diritto e dell'adempimento di un dovere, di cui all'art. 51 cod. pen.; e, d'altro lato, si fonderebbe sull'"esigenza di consentire che con l'assoluta libertà di manifestare le proprie opinioni i componenti del Consiglio superiore della magistratura possano assicurare l'indipendenza dell'ordine giudiziario per la quale quel Consiglio opera...". Sotto quest'ultimo aspetto, l'art. 5 della legge n. 1 del 1981 sarebbe dunque "espressione del principio di ordine costituzionale di cui al primo comma dell'art. 104 della Carta costituzionale dello Stato".

    Con ciò, del resto, non si sarebbe contraddetto nessuno dei parametri costituzionali invocati dal giudice a quo: non l'art. 112, dal momento che la norma impugnata non avrebbe introdotto alcuna ipotesi di garanzia amministrativa o di autorizzazione a procedere, bensì avrebbe escluso che i fatti in questione costituiscano reato, senza interferire nell'obbligo di esercitare l'azione penale, gravante sul pubblico ministero quanto ai fatti- reato; non l'art. 28, che non concernerebbe la "responsabilità per atti leciti" e non escluderebbe la previsione della liceità delle condotte in questione; e neppure l'art. 3 Cost., non potendosi "porre sullo stesso piano agli effetti della manifestazione del proprio pensiero il comune cittadino nella sua normale attività quotidiana, od anche il comune funzionario, ed il componente del Consiglio superiore della "magistratura", nell'esercizio delle proprie funzioni.

  3. - Nella pubblica udienza, l'Avvocatura dello Stato ha dato atto - in particolar modo - che la tesi dell'inammissibilità delle impugnative concernenti norme penali di favore si fonda su una linea giurisprudenziale più volte seguita dalla Corte, ma contraddetta da altre...

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